L'utopia gramsciana: la costruzione della democrazia Società

Antonio Gramsci, eletto deputato nel 1924, amico di Togliatti e direttore dell’Unità, rielabora il marxismo e lo innesta nella tradizione italiana, mediante il costante riferimento ai problemi sociali, culturali e politici dell’Italia fascista. E da questo riferimento nascono i suoi studi su Benedetto Croce, su Machiavelli, sul Risorgimento, sulla questione meridionale, sui ceti intellettuali italiani, sui cattolici, sui movimenti operai, sulle forme di sciopero, sui consigli operai all’interno delle fabbriche.

Perciò, è obbligato soprattutto a fare i conti con la filosofia di Benedetto Croce, la quale era divenuta, a suo giudizio, egemone nella cultura italiana, perché era riuscita a far radicare nella coscienza degli intellettuali la convinzione secondo cui la filosofia deve contribuire a risolvere i problemi che il processo storico presenta di volta in volta.

Di conseguenza, rivolge il suo pensiero, dove trovano profonda unità Ideologia, Filosofia e Prassi, verso la comprensione della reale situazione italiana dell’epoca e verso la possibilità di trasformarla in senso democratico-socialista; considera il fascismo come punto massimo di crisi della società borghese e i gerarchi, che percepiscono che sta loro sfuggendo di mano l’egemonia intellettuale e morale per la lenta e progressiva perdita del consenso delle masse, soltanto determinati ad usare la forza coercitiva per mantenere saldi potere e prestigio; valorizza il concetto di cultura, che vede non più come fatto aristocratico, ma come mezzo fondamentale per conquistare la comprensione della realtà e per poi provvedere ad esplicare rapporti profondi tra organizzazione economico-sociale e visione del mondo, fra lotta di classe e scoperta scientifica ed artistica.

In particolare, polarizza l’attenzione sul Risorgimento ed afferma che fu una rivoluzione mancata per responsabilità del Partito d’Azione, il quale non riuscì a svolgere un’azione adeguata per realizzare la trasformazione della realtà politica del tempo.

Difatti, non seppe essere giacobino, perché disattese le esigenze dei contadini, non provvedendo alla riforma agraria, fondamentale per neutralizzare il latifondo e creare un ceto di contadini e/o di piccoli proprietari.

Questo iter ragionativo è utile a Gramsci per prendere le distanze dalle tesi economiche del marxismo, nella consapevolezza che allora non c’era un proletariato industriale o tanto meno una classe operaia organizzata, in grado, secondo i principi marxisti, di promuovere la trasformazione della società.

Per quanto concerne la costruzione della Democrazia, si adopera a definire (come dai Quaderni dal Carcere) i modi e gli strumenti necessari per trasformare la società in direzione democratico-socialista.

E, partendo dall’identità tra filosofia e storia, individua la funzione, nella società contemporanea, dell’intellettuale organico –che non identifica soltanto con il medico, l’avvocato, l’ingegnere, il professore, il giornalista, eccetera, ma anche con il lavoratore in genere, attrezzato culturalmente e capace di incidere con le proprie attitudini interpretative e decisionali sulla realtà nella quale vive- come portatore ed elaboratore dell’ideologia del “blocco storico”, cioè della forza politica, formata dall’unione di una classe con classi o gruppi alleati, di cui egli stesso è espressione. Elabora così la teoria di uno Stato socialista e del Partito, che, “moderno principe”, inteso come intellettuale collettivo e non come eredità concettuale dell’immagine machiavellica, deve promuoverne la realizzazione.

Difatti, in Antonio Gramsci l’intellettuale si identifica col dirigente di partito che rappresenta l’insieme degli interessi e delle aspirazioni della classe lavoratrice. L’Ordine Nuovo si costruisce con la rivoluzione, diretta dal partito –ritenuto depositario della fede e della dottrina- al quale il militante è subordinato senza alcuna riserva.

Dunque, nell’impalcatura del pensiero politico di Gramsci, il partito è come una chiesa e la rivoluzione è come la guerra. E il socialismo, forse per necessità storica, si fa in lui religione per fronteggiare la dittatura.

Come un gruppo sociale conquista il consenso e “diventa egemone”.

Secondo Gramsci, la classe tendente all’egemonia deve trasmettere, con azione intelligente e costante, i propri ideali, i propri valori, nelle istituzioni della società civile (Sindacati, Partiti, Stampa, Chiesa, Scuola, ecc…) per produrre, con la forza persuasiva della capacità di risolvere i problemi urgenti della vita, unità morale ed intellettuale tra i diversi gruppi sociali e consenso ad una cultura che ha i crismi della validità universale.

Così diventa chiaro che, con la capacità di indicare e dirigere la soluzione dei problemi di una società, si costruisce l’egemonia.

In buona sostanza, con la filosofia della prassi, Antonio Gramsci propugna la rivoluzione contro il Capitale mediante l’arma del metodo dialettico, che consente all’individuo di prendere coscienza delle contraddizioni sociali nelle quali vivono gli uomini reali e lo spinge ad affrontarle e a dirimerle; aiuta i “semplici” a passare dalla loro filosofia primitiva del senso comune ad una concezione superiore della vita, fondata sul buon senso; sostiene, anche dopo il confronto con Lenin a Mosca, nel 1922, in occasione del Congresso dell’Internazionale socialista, che la storia si configura come genesi ed espansione di antagonistici principi egemonici o modelli culturali. Dunque, diventa assertore di una nozione diversa di storia da quella marxista. Infatti, per Carlo Marx la Storia è sviluppo delle forze produttive (teoria questa contestata pure da Simon Weil).

L’utopia gramsciana troverà inveramento nell’organizzazione della società civile del dopoguerra, per la funzione svolta dai principi e dalle leggi della Carta Costituzionale, che andò in vigore il primo gennaio del 1948.

Il messaggio di Antonio Gramsci è ora di grande attualità, perché esorta tutti a farsi difensori della democrazia che, come valore eterno, è mutevole e vulnerabile.

VITTORIO BARBIERI

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