Sottrarsi alle prove Società

Una associazione studentesca ha proclamato il diritto alla diserzione dalle prove di valutazione organizzate da un apposito organismo chiamato INVALSI. Non vi affliggo con la elencazione delle motivazioni addotte. Vi segnale “il fatto”, e aggiungo che mi è sfuggita qualche considerazione in proposito da parte di associazioni di genitori, di presidi, di assessori, di imprenditori.

O staranno impegnati fino alla cima dei capelli o non gliene frega niente.

Propendo per la seconda ipotesi. E' del tutto normale in Italia “sottrarsi”, evitare cioè passaggi e sottomissioni che possano “turbare” la crescita della ormai rara gioventù. Ai bambini, agli adolescenti, ai giovani maturi il connubio famiglia-istituzioni è pronto ad offrire alternative e giustificazioni, purché si riesca nell'intento di evitare quelle occasioni che li pongano di fronte ad esiti che richiedono assunzione di responsabilità.

E' tale l'abitudine consolidata che la si esibisce come un diritto.

Ma esiste davvero un diritto a sottrarsi ad una prova senza che ci siano conseguenze da pagare? Nel caso della scuola, esiste un ipotetico diritto a non presentarsi all'esame senza che non ne consegua un prezzo da saldare?

Nell'esempio che fa da spunto a questa riflessione, i giovani si sono giovati di una prassi che viene dall'alto: la valutazione dei dirigenti scolastici, accuratamente evitata attraverso procedure (quando si sono svolte) fittizie, con tanto di contratto collettivo che escludeva qualsiasi conseguenze ad esiti negativi.

Ma nello stesso mondo della scuola (che è il mondo della formazione, se non proprio della educazione) le rimanenti prove di esame sono state addolcite, dopo che sono scomparsi gli esami al primo ciclo delle elementari, quelli di licenza e quelli di ammissione al liceo classico (dalla quinta ginnasiale). Per non parlare di che cosa siano gli esami di fine corso (una volta chiamati di maturità).

Tutto il sistema familiare (lì dove si esercita quella essenziale funzione dell'educare) è ormai sorretto da principi di indulgenza e di irresponsabilità. La rinuncia ad educare è sotto gli occhi di tutti. Le generazioni adulte hanno rinunciato a questa funzione che dovrebbe essere connaturata alla normale relazione umana, affettiva e culturale nei confronti dei giovani.

Sul deserto creatosi dalla fuga dalle responsabilità degli adulti si è adagiata la politica, con le sue scelte che sono la conseguenze ineluttabili di una logica con la quale bisogna però (prima o poi) fare i conti.

Claudio Magris racchiude in uno sberleffo il senso di questo smarrimento. L'Italia vuole ardentemente un ruolo internazionale. Si è scelta la Libia, ma naturalmente i soldati vi metteranno piede quando sarà sicuro che non correranno pericoli. Lo scrittore mitteleuropeo conclude così: “Sarebbe come decidere di inviare i pompieri e poi ritirarli perché l'edificio ha preso fuoco” (Corriere della Sera del 17 maggio 2016).

Il pacifismo ridotto a qualunquismo ideologico induce a pensare che bastino dei cortei pittoreschi per eliminare dalla faccia della terra il male e le ingiustizie, le guerre e le malattie, le catastrofi naturali e le organizzazioni criminali. Assicurati tali illusori traguardi, appare evidente che si possono buttare al macero tutte le cautele e le precauzioni. Anche gli impianti di allarme e le serrature di sicurezza sono in fondo un placebo.

Chi glielo dice più ai giovani che, addirittura, si può morire?

E non è la conseguenza di una insicurezza, derivata dall'aver accuratamente evitato tutte le prove della vita, la facilità con cui ci si suicida? E non è conseguenza di quella stessa insicurezza la facilità con cui si uccide? Forse solo nelle quotidiane esibizioni della malavita l'assassinio può essere visto come l'esibizione di una volontà forte.

In un mondo che esclude l'eventualità di una prova (cioè la eventualità di rendere conto a se stessi) può mai allignare l'idea di una responsabilità verso gli altri (verso tutti gli altri)? Paradossalmente quella fetta di società che viene anche sbeffeggiata dal senso comune (chi glielo fa fare, ma chi crede di essere, ma dove va?) è l'ultima reale rappresentazione di un esercizio di valutazione. Alludo ai candidati alle prossime elezioni.

MARIO PEDICINI

Altre immagini