I 70 anni della Repubblica Italiana Società

Giovedi' prossimo, 2 giugno, la Repubblica Italiana compie settant'anni. Tre giorni dopo si vota per eleggere il sindaco di Benevento e i sindaci delle tre piu' importanti citta' d'Italia. Siamo in piena campagna elettorale e, però, sembra scomparsa dallo stile politico ogni accenno celebrativo su una data fondativa del nostro assetto istituzionale.

Dei 155 anni di unità nazionale, quasi la metà sono appannaggio della Repubblica. Nel bene e nel male, la forma repubblicana si è radicata, nonostante un avvio difficoltoso, proprio in virtù dell'esito di quell'altra consultazione che si tenne il 2 giugno 1946: la elezione della assemblea costituente.

Se sulla forma di stato gli elettori si spaccarono a metà (54,3% voti per la Repubblica contro 45,7% per la Monarchia), per la formazione dell'assemblea costituente (che funzionò anche da parlamento) gli elettori si divisero accordando la loro fiducia ad esponenti delle forze politiche che erano emerse dopo la caduta del fascismo. Fu possibile, pertanto, la maturazione di un clima collaborativo che portò alla scrittura della nuova costituzione e alla sua promulgazione, il 27 dicembre 1947.

Sarebbero tanti gli elementi di cultura politica, oltre che di storia nazionale, che potrebbero trovare spazio nella discussione che la campagna elettorale propone all'attenzione della gente. Purtroppo ci pare che abbia preso il sopravvento una definitiva resa alla superficialità, alla imitazione dei dibattiti televisivi dove prevalgono la volgarità e la prepotenza sulle ragioni di una riflessione civile fatta di argomenti.

C'erano ben altri motivi di scontro settant'anni fa, eppure fu possibile un momentaneo accantonamento delle divisioni per poter rinvenire nella dialettica rispettosa un fondamentale collante, fornito anche dalla pressione che i vincitori della guerra esercitarono con la diffusione di idee nuove da far attecchire in un terreno non sempre ben predisposto.

Forse è al lascito di quegli anni dolorosi, eppure fecondi, che bisognerebbe riavvicinarsi, senza l'altezzosa pretesa di archiviare tutto il passato in vista di un futuro totalmente sganciato dal patrimonio comune, del quale dovremmo essere più intimamente testimoni e continuatori.

Se Vittorio Emanuele Orlando, in qualità di decano, pronunciò un discorso veemente contro le notizie che trapelavano da Parigi, dove si lavorava a definire le clausole del tratto di pace, il 28 giugno l'assemblea elesse come Capo provvisorio dello Stato il sessantanovenne Enrico De Nicola con 396 voti a favore, 5 nulli, 88 dispersi e 12 astensioni. L'assemblea costituente elesse, cioè, come capo della neonata Repubblica un monarchico: “All'opera immane di ricostruzione politica e sociale - egli affermò all'esito della sua elezione - dovranno concorrere, con spirito di disciplina e di abnegazione, tutte le energie vive della nazione, non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori e antiche colpe”.

Il primo gabinetto De Gasperi dell'era repubblicana fu il frutto dei voti ottenuti dalle forze politiche in lizza. La Democrazia Cristiana aveva preso il 35,2%, il Partito Socialista di Unità Proletaria il 20,7%, il Partito Comunista Italiano il 19%, l'Unione Democratica Nazionale il 6,8%, il Fronte dell'Uomo Qualunque il 5,3%, il Partito Repubblicano Italiano il 4,4%, il Blocco Nazionale della Libertà il 2,8%, il Partito d'Azione l'1,5%.

Non c'erano premi di maggioranza. In democrazia non è assicurato un “predominio” mediante metodi da asso pigliatutto.

Forse anche per certe pretese divenute leggi (e, chi sa, anche Costituzione) che a qualcuno potrebbe sembrare irreale ciò che è accaduto immediatamente dopo il 2 giugno di settanta anni fa.

MARIO PEDICINI

Altre immagini