Il valore della sconfitta Politica

Pressappoco un mese alla fine dell'estate, memorie ancora fresche, non stratificate ne' storicizzate; all'orizzonte le ombre cupe degli impegni che ci aspettano. Tra qualche giorno si riparte, magari si cambia luogo e si torna all’usato sicuro; si lasciano rimpianti o semplicemente sogni, però va bene per chi è abituato a sognare. Non sempre, però, è necessario allontanarsi fisicamente, per odiare il rentrée del consueto. Ci sono circostanze che hanno la partenza lunga, come il campionato di calcio, dove appena finito uno, smaltite le sbornie da fiasco o da trionfo, già si comincia a parlare del successivo. Non c’entrerà niente, ma questo fatto mi ricorda l’accanito fumatore che mantiene perennemente accesa la sigaretta, e la perpetua come il prodigioso fuoco d’Olimpo.

A maggio finisce il campionato e a giugno si comincia a parlare di trasferimenti; decolla il magnifico calciomercato. Qualcuno storcerà il naso, paragonando questo esercizio alla fiera delle vacche, ma tant’è la piazza chiede il rinnovo, non fosse altro che per riparare ai passati guasti o per mantenere ed eternare il tempo delle vittorie.

C’è un termine che, mai come quest’anno, impazza nel settore con prepotente regolarità: vinceremo! Ai più anziani ricorderà le solenni promesse del ventennio, per i più giovani, probabilmente, sarà solo il fanatico giuramento di chi deve accattivarsi i nuovi padroni e i fedeli sostenitori.

Ci si domanderà che se tutti vogliono vincere alla resa dei conti ci sarà pure qualcuno che perderà, o che può darsi, non avendo tenuto fede alle promesse estive, di conseguenza non avrà raggiunto la meta prestabilita o sospirata. Ma se per il calciatore, che potrà cambiare sempre aria, o per la sua società di temporanea appartenenza, lo smacco potrà essere addolcito da generosi guadagni, per il povero tifoso è sempre difficile digerirlo. Tanto più che non sono infrequenti la possibilità di discutere di calcio, e quindi di rinnovare il dolore.

Si dirà che la sconfitta sportiva non è ben considerata dalla natura umana, e che soprattutto nel calcio non esiste il masochismo, magari gradito in altre manifestazioni e cure. Ma non disponendo dei mezzi per andare contro natura, o per ingannarla, perlomeno si potrebbe tentare qualcosa per alleggerire le sofferenze, magari predisponendosi con congruo anticipo, prima che il fattaccio sia avvenuto.

Senza andare a rispolverare qualche vecchio aforisma perlomeno possiamo servirci della saggezza popolare: “E’ necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta”.

Il primo passo consiste nel convincersi che non si va contro natura. Va considerata allora la gestione della sconfitta. In aiuto viene Jim Morrison: “Non è forte chi non cade, ma chi cadendo ha la forza di rialzarsi”. Si passa dalla componente fisica della sofferenza all’umanità della pena che ne deriva. “Quando si muore si muore soli”, cantava De Andrè. Ma quando si soffre, soprattutto se si è tifosi, si soffre in compagnia. E’ già un altro passo avanti, si passa a costruire un’identità, a condividere un destino. Del resto siamo abituati a convivere col destino, soprattutto con quello avverso, laddove si può sbagliare e riprendere senza scalfire la virtù e il contegno. E siamo abituati a confrontarci con gli sgomitatori sociali, quelli che non si complicano l’esistenza a passare sul corpo degli altri, pur di arrivare primi. E Pasolini legava: “Ma io sono un uomo che preferisce perdere piuttosto che vincere con modi sleali e spietati. Grave colpa da parte mia, lo so! E il bello è che ho la sfacciataggine di difendere tale colpa, di considerarla quasi una virtù…”.

E’ dunque necessario sforzarsi di andare oltre l’effimera sostanza della vittoria, non solo accettando la sconfitta, ma addirittura ammirandone il valore. La competizione, quella corretta, sana, ci tiene in vita, e la sconfitta ci gratifica nell’intimo, apprezzando magari l’umanità dei gesti, che ci accomuna agli altri esseri umani, fragili come noi. La sconfitta, ottenuta sul campo, ci rende migliori.

UBALDO ARGENIO

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