L’Ateneo perde un docente prestigioso Società

Nominato “ordinario” a Cosenza, il noto professore svela i mali dell’ Università del Sannio.

Professore, perché se n’è andato sbattendo la porta?
No, non ho sbattuto nessuna porta. Sono andato via per la totale assenza di condizioni favorevoli al lavoro e all’impegno. A malincuore ho dovuto arrendermi di fronte alla constatazione di una dura realtà, alla quale ho fatto di tutto in questi ultimi anni per non credere: l’Università del Sannio, almeno per quanto riguarda le discipline umanistiche e sociali, è un esperimento fragorosamente fallito.

Fallito in che senso, scusi?
Doveva essere una piccola sede nella quale realizzare una grande scommessa: attrarre talenti e creare un ambiente ideale per la ricerca e il dibattito scientifico tra gli studiosi. In questo modo l’università doveva diventare il motore dello sviluppo non solo economico ma culturale, civile e politico dell’intero territorio sannita.

Invece?
Invece i sogni si sono infranti contro una durissima realtà, fatta di piccole beghe provinciali, d’intrighi e di congiurette da cortile, d’infantilismi caratteriali e di borie e albagìe senza limiti. Oggi bisogna riconoscere onestamente che la città e la provincia sono molto più avanti dell’università. Esse hanno compiuto evidenti (anche se ancora relativi) progressi autonomamente. Il paradosso è che sia la società sia molti poteri locali sono psicologicamente succubi dell’università. È una manifestazione del tradizionale provincialismo di questa terra. Nella presenza dell’università era riposta la speranza di una emancipazione civile e sociale. L’alta formazione deve produrre nel corpo politico un aumento degli anticorpi critici e l’elevazione del dibattito che sono entrambi il nucleo della democrazia e l’essenza del processo di civilizzazione.

E questo non è accaduto a Benevento?
Qui è accaduto esattamente l’opposto. La tanto desiderata istituzione universitaria è scesa dal cielo come una semi-divinità. I suoi sacerdoti, i professori (ma anche certo personale amministrativo), sono adorati, esaltati e invidiati. ma indebitamente, senz’alcuna verifica del loro operato e delle loro idee (spesso bislacche o banali): nei confronti dei docenti (e ancor più dei vertici) impera un generale ipse dixit. Non vi è dibattito. Non vi è confronto. Non vi è (amore per la) ricerca. Così l’ateneo ha in questi anni acquisito una centralità politica e una considerazione sociale di pura rendita; entrambe del tutto immeritate. E ha assunto poteri inversamente proporzionali al nulla culturale che ha espresso. Un potere immenso proprio quando la funzione di traino civile e di proposta scientifica dell’istituzione da essi abitata veniva clamorosamente a mancare.

Che cosa, a suo avviso, l’università avrebbe dovuto valorizzare?
Il Sannio è il centro di un’area geopolitica tra le più ricche di storia d’Europa. La storia sannita è (e a mio avviso resterà sempre, con o senza l’università) un patrimonio immenso. Per questo bisognava imperniare la ricerca universitaria sulle discipline storiche, sociali e politiche che andavano integrate, non annullate dall’area tecnologica. Si è così mortificata la vocazione naturale, che è storica e umanistica, di questa terra. Si pensi solo alla letteratura, all’archeologia, alla museografia, al restauro, all’epigrafia, alla filologia, alla psichiatria, di cui il Sannio ha espresso, nel passato, e senza università, personalità di livello europeo: Vitelli, Marmorale, Flora, Mellusi, Bianchi, Almerico Meomartini, Alfredo Zazo...

L’università non era nata con l’intento di proseguire questi studi sulla scia dei personaggi che ha nominato?
Era fondamentale coniugare facoltà tecniche a facoltà umanistiche, politiche e sociali. E questo era nei programmi iniziali. Ma poi il progetto è stato completamente disatteso. E il fallimento più clamoroso è quello dell’area giuridica, che io fui tra i pochi a sostenere con convinzione e che ha voluto seguire la strada del positivismo formalistico e tecnocratico. Verso la metà degli anni Novanta mi sono convinto dell’idea, sostenuta da autorevoli giuristi sanniti, che lo scrivevano anche nei loro libri, che il diritto è una scienza sociale e che non si può determinare la formazione del giurista senza una massiccia presenza di materie “culturali”. Questo bel programma è stato completamente disatteso nella realizzazione del corso di laurea in scienze giuridiche. Si osservi, tra l’altro, la pignoleria pedissequa con cui si torchiano inutilmente gli studenti in molti esami, mortificando l’intelligenza critica e la creatività per seguire mnemonicamente una ed una sola “bibbia” testuale. Sono uscito una volta inorridito da una seduta di laurea nella quale uno studente aveva “compilato” una bibliografia su un tema complesso citando un unico libro! Questa è la disintegrazione di ogni senso critico, di ogni dialettica. Così non si forma nessuno. Oggi si può dire che il corso di laurea in scienze giuridiche è sostanzialmente monotematico. Inoltre, giurisprudenza, anziché essere lo strumento trasversale di apertura alle scienze umane e sociali si è appiattita su un indirizzo economicistico. E la stessa area economica ne ha risentito non poco, incamminandosi nel vicolo cieco della chiusura alle altre discipline sociali nella difesa della propria specifica identità. Di qui la scissione in due Facoltà (un a-s-s-u-r-d-o!), che ha creato due piccole e inutili aree-feudo. Si è arrivati persino allo scandalo pubblico di smembrare una bellissima biblioteca, uno dei rari fiori all’occhiello dell’ateneo sannita, dislocandola in due siti diversi, diminuendo così le possibilità dei ricercatori. E ciò nel silenzio e nell’omertà quasi generale.

A malincuore, ma ci sta abbandonando al nostro destino, allora? A parte il clima generale di crisi, dovuto anche alla riforma indetta dal ministro Moratti, quale potrebbe essere secondo lei il modo per riportare ad una condizione positiva l’ateneo sannita?
Quando accadono cose di questo genere, scienza e cultura fuggono. I saperi involvono nella dogmatica e quindi nella divulgazione del già-detto, che assurge a Parola-Unica. Gli studiosi si trasformano in soldati-del-Verbo; la dialettica in scontro senza quartiere tra gruppi organizzati. La strategia contro il “nemico” assorbe tutte le energie e l’attenzione si distoglie dalla ricerca. Invece un clima favorevole allo studio e alla riflessione è tutto l’opposto. Senza interdisciplinarità, senza ‘contaminazione’ di metodi e di concetti, non ci può essere alcuna forma di avanzamento nella scienza ma, al più, compilazione. La strada più saggia era quindi di creare una grande Facoltà di Scienze Sociali nella quale vi fossero oltre alle scienze giuridiche e all’economia anche le scienze politiche, la sociologia. E di lì proseguire verso l’allargamento alle lettere, all’archeologia, alla conservazione dei beni culturali. Si è scelta invece la via della frattura e della difesa ciascuno del proprio orticello. E così si sono liquidate le condizioni per la crescita della scienza e della cultura.

Paola Caruso