La scuola è malata ed i medici fantasticano Società

Continua l’escalation di ricette da parte di illustri studiosi che hanno però il difetto di non aver mai vissuto l’esperienza scolastica dal di dentro La scuola italiana è malata, gravemente malata. Non più competitiva in campo europeo e mondiale, da tempo si tenta di riformarla: una riforma radicale con ristrutturazione dell’intero sistema con cicli diversi, nuove discipline, nuovi programmi… Ma, in attesa della prevista grossa operazione di “trapianto” e della conseguente terapia di sostegno, al momento, ci si chiede: a chi affidarne la cura affinché in sala operatoria non giunga cadavere? Dopo il parto del comitato di saggi, nel quale troppi sono stati i letterati e gli scienziati rispetto a chi nella scuola vive ed opera, a proporre una ricetta miracolosa a pronto effetto è ancora una volta uno che nella scuola non opera. Niente voti, niente giudizi, niente compiti a casa e fare della classe un’armoniosa orchestra nella quale il suonatore di piatti non si senta inferiore ad un suonatore di violino o di pianoforte. Questo il messaggio forte che il noto psichiatra Vittorino Andreoli, nel suo ultimo libro edito dalla Rizzoli “Lettera ad un insegnante”, invia agli operatori scolastici. Più che una ricetta per una specifica malattia quella di Andreoli sembra essere un toccasana miracoloso, capace di guarire di colpo tutti i mali della scuola italiana, dalla primaria alle superiori. Una panacea che consentirebbe perfino di evitare la sala operatoria. Siamo seri. C’è un operatore scolastico capace di immaginare una scuola senza voti e senza compiti a casa? “La scuola italiana non sa educare, cosa che riusciva agli insegnanti del passato. La scuola d’oggi” afferma Andreoli “non insegna a vivere, ad adattarsi, ad essere protagonisti del quotidiano in un mondo infinitamente più complicato che nel passato. Troppo agonismo: gruppo dei bravi contrapposto a quello dei meno bravi. Obblighiamo i ragazzi a venire a scuola per poi frustrarli invece di rassicurarli inserendoli nel gruppo dei pari: tu sei da tre, la tua compagna è da sette. Il riferimento deve essere la classe nel suo insieme: il che non è affatto un appiattimento, perché se il violino o il pianoforte non attaccano bene, non c’è la sonata. L’insegnante deve essere un direttore d’orchestra… Quanto ai compiti a casa le garantisco che ormai c’è una patologia, una vera e propria invasione della scuola nel mondo della famiglia. Non è più possibile: una madre ha tante cose da fare, non deve fare la maestra, e nemmeno il padre. Devono parlare con i figli di tanti problemi che sono fuori dall’esperienza scolastica…. Penso ad una valutazione nell’ultimo anno del liceo, prima del passaggio all’università”. Siamo tutti consapevoli che la scuola ha bisogno di un buon medico ma che necessitasse di uno psichiatra, che essa fosse malata psichicamente o mentalmente, questo nessuno lo avrebbe mai immaginato. Caro professore Andreoli, d’accordo che la scuola vada amata e che l’insegnante debba amare il lavoro che svolge, ma mi permetta di dissentire su molti punti della sua analisi e, quale docente, di rigettare taluni suoi consigli. Considerata la mia e la sua età, è quasi certo che abbiamo frequentato la scuola negli stessi anni. Non penso di ricordar male, ma non mi risulta che la scuola del passato fosse meno competitiva di quella odierna o che il corpo insegnante facesse a meno di assegnare compiti a casa e disdegnasse voti e giudizi “soggettivi, imperfetti, che rischiano di divenire persino ingiusti e discriminanti”. Ricordo i tantissimi compiti che avevamo da svolgere a casa e l’umiliazione di alcuni nel vedere segnato in blu sul lavoro corretto zero spaccato o uno, voti che oggi nessuno più si sogna di assegnare. E le punizioni fisiche? Il voto è sempre stato un modo per relazionare con l’alunno. Attraverso il voto il ragazzo diviene consapevole delle proprie potenzialità, del livello di conoscenze raggiunto e può verificare la capacità di progredire e superare gli ostacoli. Che l’alunno non vada mortificato con il voto d’accordo ma da qui ad annullarlo ne passa. Pienamente consenziente, invece, mi trovo con quanto il collega Gino Palmieri ha scritto nell’ultimo numero di questo quindicinale: evitare voti bassissimi e assegnare all’alunno bravo anche il dieci. Non mi sembra poi una buona scusante per non assegnare i compiti a casa il fatto che i genitori abbiano altro da fare e che nel poco tempo libero dovrebbero parlare di “problemi che sono fuori dall’esperienza scolastica”. La sua affermazione lascia intendere che i compiti a casa vanno svolti con l’aiuto di genitori o di terzi. Non condivido: l’alunno dovrebbe fare da sé perché solo se ha fatto da sé in classe potrà comprendere e correggere i suoi errori. I compiti a casa servono per completare l’apprendimento e per maturare un rapporto autonomo, personale con il sapere. Senza l’abitudine a fare da sé, a studiare a casa, come farà il giovane una volta all’università per preparare gli esami? Il male endemico della scuola italiana è da ricercare in ben altre cause che voti e compiti a casa. Lei lo ha solo sfiorato quando en passant ha affermato che gli insegnanti sono demotivati, che hanno mille ragioni perché mal pagati, anzi a rischio di povertà. Da tempo nella scuola non arrivano più educatori, persone che amano la gioventù e la nobile arte dell’insegnare. C’è chi sceglie l’insegnamento per “comodità”, chi perché non ha trovato nulla di meglio e chi solo per assicurarsi un minimo di pensione. Il professore, lei afferma, deve essere un buon direttore d’orchestra per la sua classe. Più che la classe ritengo che una buona orchestra debba essere il consiglio di classe e ancor più il collegio dei docenti. Purtroppo bisogna amaramente constatare che in queste due realtà suonatori di piatti e tamburi, solo perché capaci di fare più rumore, molto spesso dominano su violini e pianoforti. Inoltre, i colleghi che amano l’insegnamento e che lavorano seriamente (e che per fortuna non mancano) non me ne abbiano.

GIUSEPPE DI PIETRO