Costituzione italiana: la più bella del mondo? In primo piano

Da tempo gli esponenti dell’intellighentia si contendono la scena ripetendoci fino alla noia che siamo fortunati perché, per dirla alla Raf, la Costituzione della Repubblica Italiana è “la più bella del mondo”.

Girotondi, convegni, dibattiti, talk show (Benigni docet), pièce teatrali, marce, fiaccolate, cortei, letciones magistralis, varie ed eventuali.

In tutto questo panegirico mi sorge il dubbio che molti ... si siano dimenticati di dare una lettura, seppure veloce, all’oggetto del desiderio.

Io che, per studi universitari e per professione, da anni devo leggere (e, confesso, molte volte rileggere) la nostra Bella Costituzione non avverto quel senso di estasi né i brividi dietro la schiena che pervadono la moltitudine degli intellettuali, ma in verità qualche volta uno strano stupore per la banalità e l’imprecisione di alcuni concetti in essa espressi.

Certo, appartengo alla categoria degli ignoranti, cioè di coloro che etimologicamente non conoscono la profondità di pensiero della Legge delle Leggi, percependone più i limiti dettati dal compromesso storico tra le opposte visioni politiche dell’immediato dopoguerra di cui è figlia. Però sono mosso dall’incosciente coraggio delle mie idee, non omologandomi al pensiero unico dominante o allo stereotipo di un formale estetismo giuridico: di una bellezza astratta e senza concreti canoni di riferimento.

Per intenderci, per me la Costituzione non è la Divina Commedia (che, pure, bontà sua, Benigni ci ha letto e spiegato), né un esempio del dolce stil novo.

Il suo periodare non è aulico e solenne, bensì tecnico e spesso aridamente burocratico, trattandosi pur sempre di un corpus di norme.

Si veda, ad esempio, l’articolo 1 che recita “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

La sua dizione ha dato adito a letture maliziose. Ad esempio non è parso vero ai tedeschi di sfotterci rielaborandola in “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro…degli altri”. Tanto per sottolineare la propensione dell’homus italicus al lavoro.

A parte gli scherzi, la norma è pleonastica e presta il fianco ad interpretazioni estemporanee.

Il dire che l’Italia è una repubblica democratica è un non senso, perché la res publica è per definizione il prototipo della forma più antica di governo democratico tramandataci dai greci (quella ateniese sembra essere stata la sua prima espressione) e sviluppata dai romani. Ne consegue che la repubblica è, per sua natura, democratica. Non può essere altro. A meno che si ritenga ancora possibile l’esistenza di una forma di governo repubblicano oligarchico, come nell’antica Sparta.

Il precisare poi che la sovranità appartiene al popolo non è altro che ripetere quanto già esistente nel concetto di repubblica e di democrazia (cratòs, potere, dèmos, ceto popolare).

 Pertanto in soli due commi e due righe si è ripetuto lo stesso concetto: cioè “L’Italia è una Repubblica democratica”; “La sovranità appartiene al popolo”

Non certo fulgido esempio di precisione legislativa, ma di ridondante sottolineatura (dettata, forse, dal delicatissimo clima politico dell’epoca) dello stesso concetto in differenti espressioni.     

Né vale a scalfire il dato oggettivo il fatto che in un recente passato alcuni regimi autoritari ed antidemocratici, specie di stampo comunista, hanno cercato di camuffare la loro natura usando la dizione “Repubblica democratica” (qualcuno ricorderà la DDR, l’URSS, tanto per citare quelli più conosciuti), perché in tal caso si è trattato di un utilizzo del nome contro natura (per usare un eufemismo). Dell’eccezione che conferma la regola, a meno che si voglia aderire, anche in politica, all’uso kenesiano della forma di governo repubblicana.

Del pari dire che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro è affermare una ovvietà, come se vi fossero stati che si fondano sull’ozio (o costituzioni che lo legittimino).

Tanto è vero che vi è stata qualche forza politica che, in passato, ha chiesto di sopprimere tale fondamento, individuando come valori fondanti della Repubblica il mercato e la solidarietà.

Da siffatta imprecisa dizione qualche solone ha fatto discendere un generico concetto di diritto al lavoro che lo stato dovrebbe assicurare al cittadino; per dirla alla Zalone, il diritto al posto di lavoro, meglio se, fisso.

Da qui l’abusato ritornello secondo il quale la Costituzione tutela il diritto al lavoro tout court, con relativi girotondi e girotondini.

Se si legge la norma in modo coerente ed orientato, coordinandola con il principio sancito dall’articolo 35, primo comma (“La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), appare chiaro che essa intende garantire - anzi, deve garantire - ad ogni cittadino la possibilità di accedere al lavoro.

Quindi pari opportunità di accesso al lavoro, non indistinto e generalizzato diritto al lavoro.

Ne consegue che il primo comma dell’articolo 1 della Costituzione poteva semplicemente statuire che “L’Italia è una Repubblic.”, o, al più, che “L’Italia è una Repubblica democratica”.

Altro esempio è costituito dal primo comma dell’articolo 3, il quale statuisce che Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Siffatto principio di eguaglianza (chi non ricorda “La legge è uguale per tutti”, frase che fino a qualche tempo fa campeggiava nelle aule di giustizia), così come sancito nella carta costituzionale si rivela impreciso ed incompleto.

Per superarne l’astrattezza sarebbe bastato specificare che “tutti i cittadini, nelle stesse condizioni, sono uguali davanti alla legge”.

Il principio fondamentale di uguaglianza non deve essere bello, quasi fosse una astratta categoria dello spirito, ma preciso e stringente, per evitarne interpretazioni distorte come troppo spesso avviene nelle aule dei tribunali, nei quali (forse per un insperato tardivo senso del pudore) oggi leggiamo che “La giustizia è amministrata in nome del popolo”.

Ciò sta a significare che la nostra Magna Charta non è un totem intoccabile, da non poter criticare senza essere gratificati dei peggiori appellativi dall’intellighentia dominante, ma che - come tutte le cose umane - è perfettibile e modificabile col mutare del quadro sociale, politico ed economico.  

Sarebbe, pertanto, auspicabile esercitarsi più nella sua lettura che nella partecipazione a girotondi, che comportano il serio rischio di restare … tutti giù per terra.

Non sarebbe, forse, la Costituzione più bella del mondo, ma sicuramente una delle più chiare.

UGO CAMPESE