Il tema della lotta nel chiostro di Santa Sofia In primo piano

Mirabile esempio dell'arte romanica campana, il chiostro di Santa Sofia fu eretto nella seconda meta' del XII secolo dall'abate Giovanni IV. Esso rappresenta un unicum nell'intera penisola, dal momento che in tutta Italia non ve ne sono con decorazioni simili. Inoltre i pulvini, di cui parliamo subito, sono opera di almeno tre maestranze diverse, come rileva anche uno studio di Mariano Messinese, ospitato nella rivista “Archivio Normanno-Svevo”, numero 4 del 2013/14.

L’edificio è a pianta quadrangolare, con una rientranza nell’angolo meridionale verso il centro della corte, dove vi è un pozzo. Il chiostro è sorretto da 16 pilastri, tra i quali sono situate quindici quadrifore ed una trifora nell’angolo meridionale. Esse sono formate da archetti di gusto moresco, che poggiano su 47 colonnine di alabastro, granito o calcare. Tutte le colonnine sono sormontare da un capitello e da un pulvino, vale a dire un blocco di forma tronco piramidale rovesciato e decorato su tutti e quattro i lati, due maggiori e due minori, che lo compongono.

Proprio gli studi del Messinese, ed ancor prima, quelli pionieristici del professor Elio Galasso, per molti anni direttore del Museo del Sannio, hanno indagato la simbologia dei capitelli scolpiti. Tra i vari esaminati emerge quello della lotta che l’uomo deve sostenere per superare tentazioni e cadute e giungere alla salvezza. Le tante belve feroci che costellano i pulvini rappresentano proprio tutto ciò contro cui l’uomo deve lottare e di cui deve liberarsi per giungere spiritualmente alla “vita”, in una sorta di “crociata permanente”, come la chiama Galasso, per raggiungere lo scopo.

Dunque, il ciclo decorativo presente in questo chiostro, a differenza di molti altri, sia italiani che stranieri - soprattutto spagnoli -, presenta in prevalenza temi profani al posto di quelli sacri. Tant’è che solo sul primo pulvino sono presenti scene cristologiche: in tutto quattro e presenti solo in esso. Esse rappresentano episodi legati alla Natività di Cristo. Sono pochi anche i soggetti biblici: Eva, Sansone, il Tetramorfo, l’Agnello Mistico, l’arcangelo Michele.

Messinese parla del tema della lotta che egemonizza la decorazione del chiostro di Santa Sofia, e presenta diversi esempi. Cavalieri, animali e mostri fanno parte dell’intero ciclo. Il topos iconografico della lotta, rileva lo studioso, è molto diffuso nell’arte romanica. E prolifera in tutta Europa, nonostante, ad esempio, una figura autorevole come Bernardo di Clairvaux manifesti il suo disprezzo per questo genere di raffigurazioni.

Tre in particolare sono i combattimenti raffigurati nel chiostro, secondo Messinese: bestiali, equestri, tra uomini e bestie.

Il cervo è spesso raffigurato nelle lotte bestiali. Presso i Celti, il cervo era considerato animale caro al dio Corumn, equivalente al dio Apollo e, con la luce diurna al dio Lug che non invecchia mai. Nei miti che riguardano quest’ultimo, il cervo è presentato come emblema dell’eterno ringiovanimento, dal momento che le sue corna si rigeneravano sempre. Nel Salmo 41 è richiamata la cerva che si disseta ai corsi d’acqua e simboleggia l’anima che anela a Dio. In epoca medievale il cervo diviene il simbolo della purezza, dell’innocenza e della persecuzione del fedele, nel caso sia aggredito da un’altra bestia o dall’uomo. Il tema del cervo aggredito, in realtà, è già presente nell’arte classica. Il continuo ricorrere della figura del cervo nel chiostro di Santa Sofia, ricorda l’anima del buon cristiano aggredito dalle forze del male, e quindi tutta la dialettica bene/male nella vita dell’uomo medievale.

Vi è poi la raffigurazione del bue. Questo animale fu nel Cristianesimo ritenuto la variante dell’agnello, cioè una vittima sacrificale per eccellenza. L’agnello ebbe diffusione simbolica più ampia del bue, anche se entrambi rappresentano la purezza della missione terrena del Cristo. Il chiostro di Santa Sofia è, tuttavia, in antitesi a ciò che succedeva lungo tutto l’arco del Medioevo, infatti nelle decorazioni sono presenti i buoi, mentre gli agnelli sono quasi del tutto assenti. In due capitelli è raffigurato il bue azzannato da due cani posti alla sua destra ed alla sua sinistra, con scene che riempiono completamente la superficie, per quella sorta di horror vacui, di paura del vuoto, tipica dell’arte romanica (come scrive anche F. Leriche Andrieu). Semmai dovesse rimanere un po’ di spazio vuoto, ecco che a riempire la superficie compare un fiore, o una stella, o altro all’occorrenza.

Più complessa è, invece, la scena del combattimento tra cani ed elefanti, anch’essa elaborata forse per scongiurare l’horror vacui, mentre sul pulvino 28 campeggia un leone che sbrana un asino. Quest’ultimo animale, nell’iconografia medievale, sarebbe il simbolo dell’intelligenza riluttante, che non vuol farsi convincere, e rimane nell’ignoranza. Per Galasso il leone rappresenta l’uomo che fagocita il vizio più ottuso: l’ignoranza.

Anche le raffigurazioni di combattimenti di uomini contro bestie sono molto diffuse nell’arte romanica. Quelle del chiostro di Santa Sofia, molto numerose, richiamano ad altri esempi della Penisola e d’Oltralpe. Sul capitello 45 è raffigurato un uomo che combatte contro un grosso serpente, l’animale che nella Genesi ha sedotto Eva e l’ha indotta nel peccato. La scena è molto simile a quella di un capitello della basilica di San Michele a Pavia. L’uomo deve lottare accanitamente per sottrarsi alle tentazioni. Questo il suo dramma.

Nel pulvino n. 27 un uomo nudo tende l’arco contro un drago. Nella mitologia greca il drago aveva il compito di custodire i tesori più preziosi. Ed è proprio un drago che attende Giasone alla prova finale per la conquista del Vello d’Oro. Il suo polimorfismo lo rende adatto a volare, a strisciare per terra, nuotare in acqua e ad avere familiarità col fuoco. Insomma, una sintesi perfetta dei quattro elementi empedoclei. Anche Eracle deve affrontare un drago per impossessarsi dei frutti d’oro che crescono su di un albero nel Giardino delle Esperidi. Secondo lo storico Plinio, il drago è posto a guardia dei luoghi sacri per la sua forza e per la sua vista acutissima.

È con gli Ebrei che il drago subisce una connotazione negativa, in quanto i popoli confinanti adoravano divinità simili ai draghi e quindi essi videro in tale mostro una prefigurazione di Satana, trasmettendo questo concetto al cristianesimo. Il medievista Jacques le Goff parla di una progressiva interpretazione negativa del drago. In epoca romanica il drago è visto, da un lato, ancora come custode di luoghi sacri, dall’altro come personificazione del male. Nello stesso pulvino 27, al lato opposto, un uomo armato di lancia affronta un leone. Ritorna qui il tema della dicotomia tra bene e male.

Per Messinese, il più interessante dei combattimenti è sul pulvino 45, lato B, alla fine del deambulatorio. Due mostri dalla lunga coda annodata (vedi il duomo di Ravello), divorano due esseri umani, che emergendo dalle fauci affondano le spade nel loro collo, nel tentativo di liberarsi.

Il mostro antropofago è tema caro all’arte romanica e diffuso in tutta Europa. A tale proposito si ricorda l’episodio biblico di Giona, il quale fu inghiottito da una balena perché aveva osato disobbedire a Dio. Dopo tre giorni di intensa preghiera nel ventre del pesce, Dio lo liberò. Ma gli esempi di uomini inghiottiti da mostri nell’arte romanica si sprecano. Nonostante la drammaticità di tali scene, il significato che vi si cela è positivo: l’ascesa dell’uomo al cielo non può nascere senza la distruzione di quello vecchio, preda del peccato. Quindi Giona prefigura la storia di Cristo e del suo sacrificio in croce e della sua resurrezione, con la quale ha redento l’umanità. Allora, il tema antropofago di cui è ricca la simbologia del chiostro, rappresenta il percorso catartico dell’uomo verso la salvezza.

E veniamo ai combattimenti equestri. Anche questi sono fra i più diffusi nell’arte romanica. In Francia ve ne sono molti. In Italia i più noti si trovano ad Otranto, a Modena, a Bari. In tutti e tre è diffuso il ciclo di Artù (tanto importante nella letteratura anglo-normanna). A parte i combattimenti riconducibili al ciclo bretone, vi sono anche quelli tratti dalla Chanson de Roland, sulle gesta dei cavalieri di Carlo Magno in lotta contro i musulmani di Spagna, presenti nella cattedrale di Brindisi. Non va dimenticato che da questa città i crociati si imbarcarono per raggiungere la Terrasanta e riconquistare i luoghi sacri alla Cristianità.

Scene di cavalieri sono nel pulvino 9 lato B e n. 42 lato C, entrambi interpretati da Galasso, che nel primo ha visto l’esito fallimentare della seconda crociata, nel secondo l’impegno nella lotta in difesa del bene, contro i nemici della fede. Vi sono poi scene riconducibili all’epopea cavalleresca normanna: e cioè nei pulvini 2 lato B, 2 lato C, 37 lato C, 38 lato B. Scene relative all’epopea normanna sono frequenti in Italia. Messinese ricorda quelle sull’archivolto della basilica di San Nicola di Bari e quelle su di un capitello erratico a Montevergine. Proprio quest’ultimo, almeno secondo la Giess, sarebbe opera dello stesso Maestro dei Mesi che operò nel cantiere del chiostro di Santa Sofia.

Sul capitello n. 2 vi è una lotta fra un cavaliere ed un serpente (l’eterna lotta fra il bene e il male). Sui pulvini 37 e 38 si susseguono scene confuse: un cavaliere che si avventa contro un leone che stava aggredendo un vitello; un cavaliere che insegue un cervo. Anche qui ritorna la dialettica bene-male.

Dunque, per concludere, tutte e tre le tipologie di combattimenti descritti, rappresentano il cammino umano, irto di prove e sottoposto al sacrificio, se si vuole veramente raggiungere il premio eterno: la salvezza dell’anima.

LUCIA GANGALE

Altre immagini