La crisi del fattore umano In primo piano

Il fondo di Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera di sabato 13 ottobre, chiama in causa “la crisi del fattore umano”, come protagonista del momento storico confuso ed incerto che ci tocca vivere. “Dal fattore umano - scrive Cazzullo - la ripartenza dell’Italia non può fare a meno”.

Non è in ballo un ricambio della classe dirigente, cioè quella naturale sostituzione di pedine che escono di scena con altre, più giovani, allevate nello stesso humus culturale e sociale. Per l’Italia (e per il mondo) è necessaria una “destituzione” generale, una messa in pensione generalizzata, e la preparazione su basi nuove di una riconosciuta leadership. E senza voler affrontare temi che esulano dal nostro piccolo orizzonte locale, si deve riconoscere che solo dal piccolo può prendere forma una volontà di riscossa che parta dalla presa di coscienza dei troppi errori commessi, accettati e condivisi.

Dando uno sguardo all’età dei politicanti sulla scena, balza all’occhio che si tratta di figli della generazione che, nelle fumisterie del mitico ‘68, tradì la eredità trasmessa dalla società operosa uscita dalle prove della guerra e capace di rimettere in piedi una organizzazione statale mondata dai residui del centralismo per sperimentare l’assunzione di inedite forme di responsabilità.

Alla cultura responsabilità fu contrapposta la libertà del non fare, a partire da quella di non studiare. Era ciò che si pretendeva (e si otteneva) dal voto politico nelle facoltà universitarie: di fronte all’assemblea il professore (tradendo la sua funzione) dava un voto unico, uguale per tutti.

L’uguaglianza (meglio: l’illusione della uguaglianza) si conquistava senza alcuno sforzo individuale, senza alcun sacrificio. Lo Stato, minacciato nei suoi servitori additati come pedine da abbattere, non aveva alcuna autorevolezza da difendere. Di fronte alla minaccia di un abbattimento violento, si preferì svuotare l’apparato di ogni capacità di rappresentare un interesse superiore. Con sempre minore capacità di narrare una verità storicamente verificabile, si tende ad esaltare lo scansato pericolo con una retorica resistenziale.

Ma la verità non può più essere negata. Il ‘68 e quel che seguì fu indubbiamente un colpo all’intero sistema sociale che la storia aveva edificato. L’irruzione dei diritti individuali come i soli aventi cittadinanza nella Repubblica (ignorando ciò che la stessa Casta Costituzionale riconosce alle diverse forme della articolazione civile, a partire dalla famiglia) venne accettata e prontamente travasata in leggi dello Stato. Il nuovo diritto di famiglia, la liberalizzazione dei costumi con l’abbandono scellerato di valori e consuetudini che sono stati l’ossatura della civiltà e che, essi sì, avevano tenuto a distanza istanze barbariche rappresentante da diverse sensibilità etiche, hanno inciso profondamente in un tessuto sociale privo di alte presenze autorevoli che, in altri momenti storici, avevano saputo orientare ed incoraggiare le moltitudini. I nuovi valori sono stati lo svago e il divertimento.

Affidata alla politica il materiale di retrobottega di una autentica classe dirigente, in famiglia si è affermata una pseudopedagogia basata sul principio: i figli non devono soffrire come abbiamo sofferto noi (la miseria, la fame, la guerra, il lavoro mal retribuito). Come se fosse possibile esonerare qualcuno dalle disgrazie e dai fallimenti. Ed ecco, consequenziale come un sillogismo medievale, l’esonero da ogni tipo di impegno, a partire da quello dello studio. Con il corollario, più che logico, che saltata la moda di impegnarsi, non vale la pena neanche di pagare i debiti. Soprattutto se sono stati fatti dai progenitori.

Salirono in cattedra molti malformati del ‘68, con le loro insicurezze (nel migliore dei casi), a prospettare un’età dell’uguaglianza falsa e ingannevole. Che me frega...fu il motto ereditato dal laboriosissimo pentolone romano. Di qui l’irridere chi pensa che abbia un senso morire per qualcosa, per un ideale, per un amico, per un famigliare.

Certo, non sono mancati (e non mancano, per fortuna) persone che hanno costruito una propria identità con l’esercizio di libertà costruttive, non slegate da una cosciente consapevolezza dei propri doveri. Ma l’insieme dei valori dominanti osservabili nelle mode, nei comportamenti, nei linguaggi appartiene al mazzo della rozzezza individualista e cafona.

La differenza tra la vecchia educazione e quest’ingannevole pedagogia del non dovere nulla ma del pretendere tutto sta proprio qui: nella consapevolezza che chi guarda al futuro non bada all’immediato tornaconto. I piccoli borghesi che si facevano la casa, negli anni ‘50 e ‘60, se la facevano per loro, ma la pensavano come una eredità da lasciare ai figli. Il politico che decideva la costruzione dell’Autostrada del Sole o la Benevento-Telese-Caianello non la faceva con la prospettiva di poterla vedere finita o di andarla ad inaugurare.

Oggi nell’insicurezza di tali momenti festosi si rinuncia pure a progettare una strada a due carreggiate da Benevento a Caserta Sud. Le risorse (sempre limitate come insegna la prima regola dell’economia) vanno disperse nel rifare (male) marciapiedi e ribituminazioni.

Tornando alla famiglia, istituzione minata da tutte le parti da sirene tentacolari, se ne è persa la ragione storica che è quella dell’unità del focolare, definizione (peraltro) incomprensibile per chi ha tradito la funzione dell’educazione che è quella di raccontare una storia (quella realmente vissuta) per poter tracciare un immaginario cammino da proseguire con le proprie forze da parte dei figli.

Ora che la famiglia non ha più fondamento sull’unità, i genitori sono indotti a separare i patrimoni, i figli a chiedere anticipi sulla futura eredità, i coniugi a consentirsi divagazioni avallate dalla legge, dove e come un ragazzino o un giovane può allungare lo sguardo per intravedere un “mondo dei doveri?”

MARIO PEDICINI