La ''donazione'' di Mimmo Paladino... Capriccio d'Artista In primo piano

Miracoli della smemoratezza. Ovvero magia del non ricordo. Può un ente pubblico cadere nella malattia senile della confusione mentale?

A rigore no. Un ente pubblico, quale ad esempio il Comune di Benevento, è forgiato da carte e documenti, da verbali e quietanze, da archivi dove tutto torna. Più passa il tempo e più si fortifica la stratificazione documentaria. Un Comune, dunque, non può confondersi, dimenticare, scambiare la notte per il giorno.

La storia che raccontiamo non è nuova. Più di dieci anni sono passati. Ci divertimmo a tirare le orecchie di un giovane assessore “biondo e bello e di gentile aspetto(egli sì privo di memoria, non smemorato). C’è poco da divertirsi se quella storia che sembrava chiusa è riemersa con una recente seduta del Consiglio Comunale, durante la quale solo uno (il consigliere Francesco De Pierro) ha osato mettersi di traverso. Altri, presenti in consiglio comunale già al tempo dell’assessore “biondo e bello e di gentile aspetto”, hanno evitato di ricordare e hanno attaccato il ciuccio dove andava il padrone.

La storia è quella di una “donazione”, formalizzata dal notaio il 21 maggio 2007. L’oggetto della donazione è “l’insieme delle opere d’arte, che costituisce unica ed indivisibile opera, già ubicate, in modo definitivo e visibile al pubblico, all’interno del sito denominato “HORTUS CONCLUSUS”, in Benevento a vico Noce”.

Sta di fatto, però, che la suddetta “unica e indivisibile opera risulta solennemente e pubblicamente inaugurata con tanto di targa bronzea l’anno 1992. Sulla targa (sta ancora là su una colonna entrando a sinistra da Vico Noce) il sindaco dell’epoca, Antonio Pietrantonio, scriveva tutta la sua gratitudine per l’arte di cui Mimmo Paladino faceva dono alla città e alla comunità umana che sarebbe passata nel luogo divenuto magico per mano dell’artista.

Cioè (come si diceva ai tempi del Sessantotto): il Maestro si sveglia dopo 15 anni e va dal notaio, dimenticando che tutte le spese sostenute per la realizzazione delle singole opere e la loro infissione al suolo fino a farne un tutt’uno furono sostenute dal Comune di Benevento. Che liquidò tutto quanto fatturato dalle fonderie delle quali si servì Paladino, in una totale condivisione di un patto, formulato anni prima, per la realizzazione di un monumento alle vittime del terrorismo nella piazza ricavata dalla demolizione del muro del giardino di Palazzo De Simone abbandonato dai Fratelli delle Scuole Cristiane. Il patto, per essere precisi, fu più volte rimaneggiato, per renderlo compatibile con le disponibilità delle casse comunali (321 milioni di lire, oggetto di specifico mutuo deliberato dalla Giunta municipale il 12 settembre 1988). La prima soluzione dell’omaggio a Paolella e Delcogliano, però, prevedeva una grande vasca per una spesa ipotizzata attorno al miliardo di lire. Pare che il sindaco abbia liquidato in maniera brusca (si fa per dire) il messo inviato da Paladino con le carte progettuali. Ferma restando la location, si passò ad un piedistallo con qualche gradone: e qui comparve per la prima volta l’idea del cavallo. Grazie ai buoni uffici di Peppino Baccari (all’epoca assessore e anche uomo di fiducia del sindaco, ma preso da sincero entusiasmo per il posto assicuratogli nella storia grazie all’imperitura opera del Maestro) fu evitata la rottura. Onestamente non so a chi brillò l’idea che si potesse accontentare Paladino mettendogli a disposizione un bene del demanio comunale: lo spazio dell’orto dei Domenicani il cui palazzo (dismesse le funzioni di Tribunale) veniva in quel mentre restaurato, con fondi comunali, dalla ditta Callisto. I soliti “buoni uffici” servirono affinché l’impresa facesse rientrare nei lavori appaltati anche la sistemazione dello spazio esterno, alla cui definizione avrebbe provveduto Paladino, nonché alla installazione delle opere in bronzo che sarebbero scaturite dalla fantasia d’artista. Ecco allora l’erezione del muro sul quale collocare il cavallo. Tutto, per filo e per segno, discusso, concordato ed approvato dal Maestro. Le parole, i punti e le virgole della stessa targa inaugurativa sono frutto di pazienti e riservati abboccamenti Paladino-Pietrantonio.

Che cosa dona, dunque, nel 2007 il Maestro? Basta leggere ciò che vieta al Comune al momento in cui dona: “E'’fatto espresso divieto di alienare, in tutto o in parte, ivi compreso il sito immobiliare, quanto oggetto della ... donazione, con precisazione che le opere devono considerarsi un insieme inscindibile con il sito ove sono ubicate”.

Si dà il caso che per antica dottrina, superficies solo cedit: è il proprietario del suolo a incamerare le opere soprastanti. Le cose che Paladino considera “inscindibili” come fanno ad essere di sua proprietà, tali da poter essere donate, se lui sicuramente non è proprietario del suolo? Ma, poi, l’assessore al patrimonio ne propone la inventariazione nella categoria giuridica dei “beni mobili demaniali”. Sono immobili o sono mobili? Che cosa ha votato il consiglio comunale?

L’unica cosa certa è che il Comune si prende una cosa già sua, ma con un vincolo nuovo: quello di non potere, per l’eternità, venderlo o donarlo. Pirandello mio, facci capire.

Non è tempo di affrontare le discutibili clausole, fatte proprie dal consiglio comunale con l’approvazione di un regolamento di funzionamento dell’Hortus. Ogni qualvolta bisogna apportare aggiornamenti o correzioni sarà necessario andare in Consiglio Comunale? Non bastava la competenza di un dirigente per redigere il regolamento?

A farla breve, se una donazione c’era da fare, Paladino ha già “donato”. L’atto solennemente “pubblico” del 1992 è inciso nel bronzo di una targa apposta sulla colonna d’ingresso del complesso chiamato Hortus Conclusus. Non c’è bisogno della carta bollata, se si è scelta una forma antichissima. Pietrantonio evoca, in un estremo tentativo di bloccare tutto, non recepito dalla burocrazia comunale, la vendita della fontana di Trevi rifilata in un film da Totò ad un ingenuo italo-americano, con la astuta macchinazione di Nino Taranto. Quella è fantasia. Ci potremmo trovare, invece, al cospetto di eredi dell’imperatore Traiano i quali, dopo essersene dichiarati proprietari, volessero fare atto di donazione della Via (tralasciando l’Arco) che da Benevento va a Brindisi e che si chiamò 1900 anni fa Traiana. Sol che quella via (così è scritto su ciascuna delle pietre miliari) l’Imperatore “pecunia sua fecit”. L’Hortus Paladino non l’ha fatto “pecunia sua”. Per chi non sapesse il latino pecunia sua significa “coi soldi suoi, a spese sue”. Ma qui Paladino “nihil fecit pecunia sua”.

Qual è il valore, ordunque, della solenne concelebrazione del lunedì di Carnevale in Palazzo Mosti? La soddisfazione di un Capriccio d’Artista. Ma Segretario comunale, dirigenti, revisori dei conti stanno lì a prendere lo stipendio senza muovere un dito per impedire un saggio di fantasiosa amministrazione? C’è il loro visto a quel capolavoro di regolamento? Chi ne è l’autore principale? Vorrà anche lui farne dono al Comune?

MARIO PEDICINI