L'eredità della storia In primo piano

Rinunciamo a qualsiasi tentativo di entrare nel merito dei “particolari programmatici” di partiti e candidati. Le elezioni del 4 marzo 2018 dovrebbero imporre cautela sol che si pensi che cadono a 70 anni da quelle di un famoso 18 aprile. Forse anche a scuola si dovrebbero comparare idee, progetti, programmi, stili e forme nonché qualità  dei materiali di quella lontana origine della nostra democrazia con la qualunquistica accozzaglia che ci propinano i “senza storia” dei nostri giorni.

Perché è propria dall'assenza di storia che possono nascere le rincorse attorno ad un risibile revisionismo, che parte dalla toponomastica e finisce ad un infantile rinascimento senz'anima. L'avvio della campagna elettorale s'è mischiata con la retorica ufficiale della “Giornata della Memoria”, dedicata al ricordo dell'Olocausto. Nello sforzo di sentirsi dentro una unanimità, s'è scatenata la corsa alla “attualizzazione” del sentimento. Logica conseguenza è la delegittimazione di ogni voce dissonante rispetto al conformismo unanimistico politicamente corretto. Ci si sono messi anche autorevoli rappresentanti della comunità ebraica, che pur avrebbero tutto il diritto di sospettare la insincerità di improvvisati fiancheggiatori.

Non basta, infatti, ricordare gli orrori e indicare i protagonisti di una pagina orrenda della quale l'umanità non può non farsi carico: bisogna pure, senza accorgersi del ridicolo, sbianchettare gli stradari, abbattere lapidi e monumenti. Cominciando, si capisce, da personaggi in vista (il re Vittorio Emanuele III) per finire al vicino di casa che, spregevole come ogni nazifascista, si sia procurato un lasciapassare verso il quieto vivere attivando di volta in volta aneliti democristiani o socialcomunisti. Non conta che il re è lo stesso del 4 novembre 1918 (non so come sarà celebrato il centenario della Vittoria: sarà retrodatata la repubblica facendo coincidere col 4 novembre la nascita della Resistenza?); bisogna togliere ogni legittimazione ad esistere a tutti quelli che al tempo del fascismo si adeguarono e tirarono a campare.

Riesce difficile capire se una qualche consequenzialità appaia nella mente di simili rifacitori della storia. Non è impossibile, invece, indovinare su quale cammino verso il sol dell'avvenire ci possono portare.

La seconda repubblica, quella che non sappiamo se è spirata o deve essere rianimata, è nata perché tutto doveva partire da zero. La parola d'ordine fu “discontinuità”. L'affossatore di questa seconda repubblica (non si sa se ci sia riuscito) usava il termine “rottamazione”.

Le due correnti linguistiche (è esagerato dire “di pensiero”) hanno in comune l'idea che ognuno è essere irripetibile e originario. Una astrazione simpatica ma scellerata. Ognuno di noi, infatti, geneticamente e culturalmente (quindi anche moralmente) rappresenta un processo ininterrotto. Nessun individuo è inizio e fine. Siamo immersi, cioè, in un processo del quale siamo interpreti di una minuscola parte in commedia. La storia, tutta la storia, ci appartiene come una eredità alla quale non ci è dato di poter rinunciare, né di poter accettare “con beneficio d'inventario”, come pure i saggi giuristi hanno previsto per la normale eredità affinché se ne possa calcolare la convenienza.

E' una illusione  ritenere che si possa, del passato, scegliere ciò che ci fa comodo e scartare ciò che ci imbarazza. Soltanto accollandoci tutta quanta la storia, avremo il diritto di innestarci in essa lungo un filone che ci sembra compatibile. E di questo siamo certo responsabili. Ma non ci esonera dalla responsabilità di tutto quell'altro che è accaduto e per il quale (o contro il quale) ci sembra di non essere in nessun modo coinvolti.

Il discorso non vale, evidentemente, per lasciare le lapidi al loro posto, degnandole dell'attenzione che si meritano (perché se pure togliessimo le lapidi resterebbero le storie dei nomi in esse infissi), ma per imputare a ciascuno di noi quella quota di patrimonio che ci tocca e su di essa fare il conto dei meriti che potremo vantare come frutto del personale impegno.

E il discorso torna brutalmente sui nostri candidati. Chi ritenga di partire da zero, sappia che non produrrà più di zero. Chi si iscrive in una continuità (accollandosi anche il costo di un debito da onorare) qualche frutto potrà sperare di portarlo in bilancio alla fine della sua esperienza.

E' su questa logica che si può misurare l'attendibilità di progetti e promesse. Perché le possiamo misurare sulla personalità del “banditore” e sulla distanza che corre tra la sincerità della promessa e la concreta fattibilità.

Chi vorrà andare alla Camera dei Deputati o al Senato della Repubblica non dovrà promettere di aggiustare la storia passata. Dovrà convincere l'elettore che è intenzionato, più prosaicamente, a scrivere un po' di cronaca di immediato futuro.

MARIO PEDICINI