Restaurazione internazionale In primo piano

E' normale, visti i tempi, che in campagna elettorale ognuno vada per la sua strada, anche dribblando precedenti opinioni, col solo scopo di creare battibecchi con la concorrenza.

Ciascun lettore di giornali o di blog potrà verificare se un candidato segue un percorso lineare o se va a zig-zag. Non vi preoccupate, per lo più lo fa apposta. Però...

Però, così facendo, si spreca il clima particolare della campagna elettorale (quando la gente presta più attenzione alla politica) senza approfittarne per lanciare qualche idea di concreta attualità. Che senso ha stare al gioco di chi la spara più grossa su abbattimento delle imposte e sussidi da dispensare a cani e porci?

Non ci diletteremo, quindi (anche se lo sfizio ci tenta), a notare contraddizioni ed esagerazioni degne del dottor Dulcamara. Tentiamo di portare sul tavolo una questione che sfugge anche quando l'attualità attrae per prese di posizione “oltranziste”: cioè il risolvere le questione andando “oltre”.

Prendete il caso della sanità e della sospettata unificazione delle ASL di Avellino e Benevento. E' chiaramente una ipotesi (minaccia, ricatto, provocazione) che trova legittimazione in quel processo di smantellamento delle province, iniziato dal governo Monti e proseguito con la riforma costituzionale. Le mosche cocchiere hanno già realizzato l'Area Vasta AVBN. E istituzioni beneventane hanno cominciato a correre verso la fusione con le omologhe avellinesi: esempio principe la Camera di Commercio, battuta sul tempo dalle organizzazioni sindacali.

Sulla questione ASL la discussione pubblica è se la notizia dell'accorpamento sia vera o falsa. Oppure se sia attuale o di là da venire. Nessuno fin oggi è risalito alla origine della questione. E nessuno osa riportare in campo la vera e sola questione che può risolvere il problema. E cioè la restaurazione delle province campane.

E' tempo (e nelle campagne elettorali bisognerebbe prestare attenzione alle questioni “attuali”) di ricollocare le pedine spostate mentre la riforma costituzionale era in atto. Bocciata dal referendum, andrebbe  annullato ogni provvedimento (legge, decreto, accordo, compravendita) attuato in ossequio alla riforma azzerata dal voto popolare.

La prima conseguenza è che le province restano in vita. Bisogna, quindi, ridefinire le competenze, partendo però dalla loro organizzazione su base democratica, ripristinando, cioè, gli organi eletti dal popolo. Si tratta, in breve, di “aggiornare” la fisionomia di organismi costituiti da un territorio, da una popolazione e da funzioni chiaramente declinate. Le province sono storicamente organismi intermedi tra Stato e Comuni. Ad esse dovrebbero essere imputate competenze proprie (cioè esclusive) e perciò stesso di chiarezza cristallina e altre potrebbero essere assegnate dalla Regione, con decisioni esclusivamente regionali. Ma lo Stato presidia il territorio con i suoi funzionari e i suoi uffici sulla articolazione per province. Il tutto (competenze proprie e funzioni delegate) con l'assegnazione di precise risorse finanziarie, ivi compresa la possibilità di potestà impositive proprie o di destinazione alle stesse di proventi di tassazioni statali/regionali.

L'altra questione che ci interessa è quella del numero di province che la Repubblica vuole mantenere. Nel travaglio degli anni passati, dopo che si scoprì che Monti non le poteva abolire, perché sono previste dalla Costituzione riformata nel 2001, sono apparse proposte le più pittoresche. Dal mantenimento della Provincia di Aosta, che ha già la Regione (che cosa debba fare tanto chiaro non è) seguono ipotesi di eccezioni. Ma è la regola che non c'è. Abbiamo tentato, in questi anni, di proporre un criterio “proporzionale” prendendo a base la popolazione ed assegnando ad ogni regione un numero di province calcolato dividendo la popolazione nazionale dell'ultimo censimento per il numero di enti-provincia da istituire.

Avendo ipotizzato che almeno 50 enti siffatti debbano costituire un patrimonio minimo di enti sub-regionali, nella nostra regione potrebbero tranquillamente restare le 4 province esistenti più la città metropolitana di Napoli (che assorbe anche la ex provincia). Non c'è alcuna necessità, insomma, di mettere in cantiere accorpamenti e fusioni di quegli organismi tipici della istituzione chiamata provincia e del “corredo” di tutte le presenze dello Stato (e di quelle che la Regione vorrà definire) che dall'unità d'Italia si insediano in ogni articolazione chiamata provincia: si parla qui di prefetture, questure, comandi di forze dell'ordine, rappresentanze dei ministeri e degli enti pubblici che erogano servizi al cittadino.

Nessuna pretesa ad ottenere di più nella ipotesi che il numero di province dovesse essere maggiore. E' evidente che la Campania, essendo stata “virtuosa” per non aver giuocato a creare altre province, non chiede  favori. Esige soltanto il rispetto dello status quo, che è ampiamente sottodimensionato se paragonato a qualsiasi altra regione italiana.

Almeno su questo i nostri candidati possono trovarsi d'accordo? Ci piacerebbe tanto sentire in questa ultima decade di propaganda qualche opinione in merito.

E vinca il migliore.

MARIO PEDICINI