Società - Il Giro viene a farsi benedire

Il Giro viene a farsi benedire Società

Come tutti gli amanti, i cosiddetti amanti del ciclismo si rifiutano di prendere atto della realtà. Qualcuno dice che il ciclismo è finito. Qualcun altro ribatte che il ciclismo è sempre stato così. Sport destinato non ai fortunati o ai figli di papà, essendo più congeniale a chi è abituato a sudare e a faticare senza lamentarsi, il ciclismo ha scritto pagine che stanno nella memoria collettiva come una pelle ad un popolo. E questa pelle nessuno te la può scolorire o cambiare di tono.

Il ciclismo non era popolare perché tutti andavano in bicicletta. L’uso del velocipede può generare un maggior numero di corridori. Ma è certo che anche i calabresi, che in bicicletta non ci vanno per fare la spesa o andare a ballare, hanno quella pelle, per cui si identificano con gli omini che al culmine di una tappa sotto la pioggia hanno il coraggio di fare un ultimo scatto. Il ciclismo è, infatti, sport non esatto, non scientifico, poiché in volata o in salita si va oltre le proprie possibilità. Il buon senso direbbe di rallentare, il cuore (o quel groviglio di sensi che fa lo sport) ti dice di osare un altro poco. Ancora.

Questo lo sa chiunque faccia sport. Ma nel ciclismo la macchina umana governa qualche tubo e un paio di ruote con una sinergia tutta particolare e, in fondo, poco più che sconosciuta.

Ebbene, il popolo dei tifosi ha sempre saputo che giravano le bombe. Tant’è che i bartaliani lo dicevano a carico di Coppi. E c’erano ciclisti abbonati alla “cotta”: una giornata ci doveva essere per sdebitarsi di un dosaggio magari sbagliato. Ogni tifoso è convinto della superiorità del proprio sport. Per il ciclismo il ragionamento è questo: il doping non trasforma un brocco in un campione. Giustissimo, a patto di credere che tutti si dopino.

Paradossalmente l’uso generalizzato degli “aiutini” è stato giustificato proprio con una sorta di necessaria “par condicio”.

Solo così, infatti, vale – come in effetti vale – la regola che chi è campione resta campione e chi è brocco resta brocco. Sarebbe facile, a questo punto, ristabilire una par condicio più bassa. Doping per nessuno e ricominciamo a correre a 35 all’ora. Si apre un nuovo libro, dei tempi, dei record e dei vincitori.

Ma proprio quelli che in bici ci vanno su telai costosi e indossano tutine e scarpette all’ultima moda, sanno che integratori e boccettine e misture più o meno particolari girano anche tra quelli che non solo non fanno i professionisti, ma non fanno neanche le gare per amatori.

Il doping è una piaga che non riguarda solo quella cerchia ristretta che rischia la vita, si pensa, con una certa consapevolezza (come i piloti di formula 1 i quali sanno che possono rimetterci la vita ad ogni esaltante curvone). Il doping è un compagno forse irrecuperabile della nostra vita quotidiana. E’ doping il non accettarsi, e quindi il ricorso a tutto ciò che possa consentire un “di più”. Non sono pochi quelli che non si accontentano e la pubblicità propone cose selettive proprio “per chi non si accontenta” o “per chi non deve chiedere mai”.

Purtroppo non si può neanche avere cieca fiducia nella scienza, o in quelli che la interpretano. Se, infatti, il mondo del ciclismo era fatto di ignoranti, quando arrivarono i professori approfittarono di una ingenuità o incoscienza di base, per propinarci prodigi di record dell’ora e sofisticherie varie.

Non pare resti altro che far benedire il Giro che arriva a Benevento dopo una attesa lunga 23 anni. I miei ricordi partono da Adriano Durante (indovinate il nome della fanciulla che baciò il vincitore?) e De Vlaeminck che vinsero al Viale degli Atlantici, e vanno a Gualazzini che beffò Sercu al Viale Principe di Napoli, al nascente Saronni che ammutolì Moser al Viale Mellusi e al Paolone Rosola che brucia Bontempi e tutto il gruppo grigio di fango al Viale Spinelli di San Giorgio del Sannio. Ma ci sono anche gli appostamenti per vederli solo passare, i girini, gli incontri con Bartali e le foto ricordo con lui, le borracce raccattate ai rifornimenti, i cappellini implorati e, quando concessi, gelosamente custoditi, nipoti e amichetti incarrettati perché si stupissero anch’essi al fruscìo dei raggi nel vento e alla magia dei colori che svaniscono con la stessa rapidità con cui appaiono.

Il Giro che arriva a Benevento mercoledì è un Giro malato. Gli organizzatori della Gazzetta dello Sport hanno avuto coraggio a riproporlo. Non si sono nascosti il dramma incombente e irrisolto del doping. Essi sono i primi danneggiati, non c’è dubbio.

Ad essi, a Castellano, a Zilioli, ai nostri entusiasti organizzatori capitanati da Paolo Serino la gente deve dare un appoggio. Quelli che staranno attorno al Giro nel circuito cittadino di mercoledì e nei saliscendi di giovedì saranno forse l’unico incentivo a continuare.

Dai corridori ci vengono segnali di impotenza. Giovedì passeranno da Pietrelcina. Che Padre Pio li benedica. Che essi capiscano quant’è difficile vivere da normali. Il guaio – se di guaio si può parlare – è che Padre Pio visse da normale – soffrendo, cioè -, non prese l’epo e neanche si fece la autoemotrasfusione e domenica 16 giugno sarà proclamato Santo.

Nella vita, insomma, non si vive solo per l’oggi.

Voi ciclisti non avete l’obbligo di diventare santi. Avete il dovere di vivere il più a lungo possibile. Ricorrendo agli intrugli voi accorciate la vostra vita. Io mi auguro che il calore del pubblico beneventano vi faccia capire quanto è importante programmare la vita, non le vittorie che portano alla morte.

Se fosse solo frode sportiva, il doping, sarebbe niente. Il rischio è la morte. Non la morte del ciclismo, bensì la morte di ciclisti, di uomini, cioè, di persone. E nessuno ha il diritto di incitare gente che fa questo o di gioire per le loro volate. A tagliare il traguardo sarebbero, infatti, cadaveri con la maglietta dello sponsor.

MARIO PEDICINI

(Realtà Sannita anno XXV – n.9 / 16-31 maggio 2002 pag.1)