Il grande inganno di Facebook Società

In questi giorni il mondo virtuale e quello reale (ma sarebbe interessante, a questo punto, domandarsi dov’è esattamente la linea di confine tra i due) sono entrambi scossi dallo scandalo Facebook e Cambridge Analytica. Mentre nel mondo reale il titolo del social network ideato da Mark Zuckerberg perde punti e tra gli utenti inferociti inizia a circolare l’idea di uno sciopero da Facebook, ancora incerto è il numero esatto dei profili coinvolti nella vicenda. 50 milioni secondo le stime iniziali, 30 secondo quanto dichiarato da Cambridge Analytica, 87 milioni a sentire le ultime dichiarazioni di Zuckerberg, di cui 214mila i profili italiani.

Ma cos’è successo esattamente? Tutto parte da un semplice test della personalità, come ne circolano tanti in rete: di che segno zodiacale è la tua anima gemella, chi eri in una vita precedente, quale sarà la data della tua morte e via dicendo. Gli utenti di Facebook, prima d’iniziare a rispondere alle domande, vengono avvisati da un disclaimer che i dati del loro profilo potranno essere utilizzati dalla società che ha ideato il test e da aziende terze ad essa collegate. Anche qui, nulla d’insolito. Come detto poc’anzi, milioni di persone si divertono ad eseguire il test, il 90% di essi negli Stati Uniti. Le informazioni cedute in questo modo iniziano a compiere un giro e finiscono così in mano alla Cambridge Analytica, una società inglese che gestisce ed analizza i dati non solo a fini statistici, ma per fornire consulenza nelle campagne elettorali.

Dov’è lo scandalo? In teoria, tutti sappiamo che Facebook non è un ente di beneficenza che offre momenti di svago gratuiti a miliardi di persone, bensì un’azienda a scopo di lucro che trae guadagno non solo dalle inserzioni pubblicitarie, ma anche dalla cessione di dati a terzi. Nel caso dei social network, le persone che s’iscrivono non sono soltanto utenti e consumatori: sono anche la merce venduta, sotto forma di dati.

La consapevolezza che le informazioni, che c’illudevamo di condividere con la nostra cerchia più o meno ristretta di amici, sono in realtà oggetto di compravendita tra società di analisi e data mining ha in qualche modo scoperchiato il vaso di Pandora. Dietro il volto pulito e sorridente del più giovane miliardario del mondo, il genio senza laurea che ha cambiato il modo di concepire la rete, si cela dunque l’ennesimo affarista avido e senza scrupoli, devoto solo al dio denaro?

Un altro genio dell’informatica, Steve Jobs, è passato alla storia per la celebre frase “Siate affamati, siate folli”. In questo caso però, più che folli, potremmo dire che in tanti sono stati ingenui: all’atto di creare il proprio profilo Facebook, ogni utente viene messo dinanzi all’evidenza dei fatti, una lunga lista di clausole contrattuali che informano dell’uso che potrà essere fatto delle informazioni pubblicate in rete. Nessuno di noi è stato costretto con la forza o convinto con l’inganno a diffondere su Facebook le foto dei propri figli, i gusti personali in fatto di libri, film, sport o passatempi, gli artisti più amati o i locali preferiti dove mangiare. L’abbiamo fatto da soli, di nostra iniziativa, principalmente perché vedevamo gli altri fare la stessa cosa.

Quindi perché siamo così stupefatti nello scoprire che quanto abbiamo condiviso con Facebook ed i siti ad esso collegati (Instagram e WhatsApp, per esempio) è stato messo a disposizione di una società che indaga le preferenze degli elettori per comunicarle ai candidati alle elezioni? Forse perché la cosa ci è sfuggita di mano? Se persino Mark Zuckerberg ha ritenuto doveroso chiedere scusa pubblicamente, spiegando che Facebook è una realtà nuova diversa da qualsiasi altra cosa esistita prima, magari quanto accaduto va al di là persino delle sue previsioni.

In effetti, nemmeno George Orwell avrebbe potuto prevedere una cosa del genere: nel futuro distopico del suo romanzo 1984, lo scrittore inglese aveva immaginato che il Grande Fratello spiasse i cittadini, non che questi lo informassero scrupolosamente e con gioia dei fatti loro.

Saluti dalla plancia,

CARLO DELASSO