Quanti punti ha un programma? Società
Carmine Nardone esce di scena come
presidente della Provincia portando in dote alla sua terra una lista
di realizzazioni che neanche il più zelante dei suoi
sostenitori è in grado di definire con precisione.
Non ha avuto vita facile, perché
il suo partito, per esempio, non è stato mai compatto
nell'assecondarlo o, forse meglio, non gli ha fornito
quell'ampiezza di orizzonte sul quale lui si è cimentato.
Una concezione burocratica del rapporto che deve esistere tra
designato-eletto e l'apparato (quel che resta di quello che fu un
apparato) costringe, infatti, la dialettica attorno al programma.
Anche nella campagna elettorale in
corso per le elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008 una delle
sfide tra Berlusconi e Veltroni si gioca attorno al programma, o
addirittura attorno al numero dei capitoli del programma. Come se
dalla magia dei numeri (il dodici è un numero magico)
discendesse automaticamente la bontà dell'enunciato o,
meglio ancora, la identificazione tra le cose promesse e la capacità
di realizzarle da parte del candidato premier.
Un programma, per quanto si voglia, non
è mai una lista di cose da fare. E' essenzialmente, invece,
una visione culturale entro cui inserire le possibili cose da fare.
Possibili, perché nessuno - in
nessuna epoca storica - può ritenere che si possa fare tutto
ciò che servirebbe in linea astratta e teorica. Possibili,
soprattutto, nel senso di adattabili agli strumenti e alle risorse
che i tempi, fortemente cangiabili, consentono di utilizzare.
L'Unione Sovietica è
collassata non perché i suoi piani quinquennali fossero mal
fatti, ma perché nessun cervellone e tanto meno cervelloni
ammassati nel tritacarne di un soviet possono fermare il mondo e
ridurlo a laboratorio nel quale gli esperimenti indefettibilmente
producono i risultati sperati.
Per quanto la fiducia nelle magnifiche
sorti e progressive faccia dell'uomo moderno, certe volte, un
bambinone facilmente lusingabile dalla suggestione della scienza,
nessuno oggi è in grado di dire come sarà l'Italia
tra cinque anni e come girerà il mondo nello stesso lustro.
Quello che vogliamo, dunque, dai
partiti e dai candidati non è una lista della lavandaia nella
quale, senza offesa per le lavandaie, chiunque può aggiungere
un desiderio. Tant'è che i programmi costruiti in questa
logica si assomigliano tutti. Da elettori, cioè da soggetti
chiamati ad identificare al meglio i rappresentanti degli interessi
generali (certamente proiezioni anche di interessi individuali),
vogliamo sapere qual è lo spirito che anima la proposizione
delle cose da fare.
Per prima cosa, vogliamo sapere se ci
dovremo impiccare a qualche eccentricità solo perché
sta scritto nel programma. Molti capricci hanno fiaccato il
governo Prodi con il ricatto che erano scritti nel programma.
Se così fosse, per ciascuna
delle due coalizioni in lotta, direi che sarebbe meglio lasciar
perdere.
Ha diritto ad una più fiduciosa
apertura di credito quella che, invece, ci dirà con maggiore
chiarezza il metodo, non tanto le cose. I servizi
pubblici, per esempio, si devono chiamare pubblici perché
servono alla generalità dei cittadini (il pubblico, appunto),
non perché debbono essere per forza gestiti con metodi e
personale pubblico (cioè partiti politici, correnti, clienti).
Più servizi pubblici con società a prevalente capitale
pubblico sono una bestemmia economica ed un inganno politico.
Eppure si accodano al coro delle
maggioranze pubbliche delle tranvie provinciali, delle aziende
speciali, e del modello asl anche tanti esponenti dei partiti
politici del Popolo della Libertà. Conservare un reparto di
ostetricia in un ospedale nel quale non va a partorire nessuno non è
operazione utile agli interessi generali, tutt'al più sarà
conveniente per qualche infermiere (dubito per qualche medico, visto
che perderà l'allenamento). Conservare la struttura
dell'AMTU (l'azienda trasporti urbani di Benevento, da poco data
in presidenza a Candido Mosé Principe) significa che sempre
meno gente prenderà l'autobus, essendo la mission
dell'azienda solo quella di sistemare, com'è recentemente
accaduto, un ex assessore derubricato dal sindaco e prontamente
risarcito dal concerto dei partiti e dei gruppuscoli che dallo
sfarinamento dei partiti si sono astutamente costituiti.
Si è comunisti e liberali, se è
possibile con coerenza. La giovane rampolla del Polo delle Libertà
che attacca Bencardino per la venuta di Bertinotti all'inaugurazione
dell'anno accademico dell'Università non si accorge che
usa gli stessi argomenti che usarono quelli che non volevano
Benedetto XVI all'Università di Roma. E sono argomenti
liberali, questi?
Gli autorevoli esponenti del Partito
Democratico che, per difendere i diritti, si adunano alla
stessa ora in cui parla Giuliano Ferrara fanno un contrappello per
non lasciarsi tentare: rifiutano il confronto, non vogliono fornire
pubblico al provocatore. Ed è democrazia, questa?
Non si mettono a repentaglio i diritti
allorché, facendo uso della ragione e della libertà, si
discute su una questione. Se si crede che il
eprobo ha torto
prima ancora che apra bocca (ha torto perché è reprobo,
non per quello che dice, ha detto o dirà), questa si chiama
intolleranza: e può essere di destra o di sinistra, sempre
intolleranza resta.
Insomma si è liberali anche
quando il liberalesimo va a vantaggio del mio nemico. Si resta
comunisti anche quando si alza l'insegna di un partito nuovo, quale
indubbiamente è il Partito Democratico, se si costringono gli
adepti ad avere una sola idea, una sola voce ed un solo
comportamento: quello fissato in anticipo da chicchessia, ma appunto
in anticipo, immutabile, irreversibile. Quello che abitualmente viene
concentrato nello slogan Non si tocca o Giù le mani
da è una nozione apodittica, che nulla ha di politico e
nulla ha di razionale, allorché si parli di pensioni o di
diritti riconosciuti dalla legislazione statale. Se, invece, qualcuno
osa porre certe questioni su un piano meta-giuridico, lo si interdice
con il fascinoso slogan: Non si toccano i diritti.
Si dà il caso, però, che
in Italia i referendum sono solo abrogativi, cioè con essi si
cancellano le leggi esistenti. I referendum sono, per caso,
antidemocratici?
Ecco, se Nardone nei suoi dieci anni
di regno si fosse fatto guidare da logiche così
stringenti, non avrebbe realizzato neanche la millesima parte
del suo straordinario bilancio. La sua firma sotto il manifesto dei
diritti viene, perciò, derubricata a peccato di
gioventù.
MARIO PEDICINI
info@mariopedicini.it