Ritorna la Provincia Società

Resta la Costituzione del 2011, quella che elenca tra i soggetti costituenti della Repubblica (insieme a comuni, città metropolitane, regioni e stato) anche le province.

Il primo tentativo di abolirle, venuto in mente al Mario Monti con loden da premier, fu bloccato proprio perché la Costituzione vigente le indicava tassativamente e serviva, perciò, una modifica costituzionale per toglierle di mezzo. In vista di una più generosa riforma (che è quella poi travolta dal referendum del 4 dicembre 2016), avevano iniziato a smantellarle: dapprima con la riduzione di numero e accorpamenti elevando a capoluogo quello tra gli accorpati col maggior numero di abitanti (un criterio come un altro, ma andava a fagiolo a Benevento), poi con la invenzione di una novità quale l'Area Vasta, con la quale tra due province da fondere vince che l'area più grande (e in questo caso Avellino si stava attrezzando come capoluogo dell'AV di AV).

Considerato il suffragio di voti che ha stoppato tutta intera la riforma, c'è da credere che il discorso delle province debba riaprirsi. Prima rilegittimando l'istituto e, secondo, obbligando la classe dirigente del Paese a trovare una ragionevole distribuzione di competenze tra gli enti della sussidiarietà orizzontale sopravvissuta al massacro.

E' probabile che si tornerà all'assalto, con la scusa del risparmio, ed è ipotizzabile che qualcuno ricomincerà con conteggi di comodo. Il testo costituzionale non elenca le province (come fa per le regioni) per cui con legge ordinaria si può progettare un riassetto. Per questo bisogna aprire gli occhi e stare svegli.

Sui tentativi proposti da Realtà Sannita nell'ultimo quinquennio di salvare la provincia di Benevento, c'è stato ben scarso interesse. Anche quando sono stato chiamato ad illustrare (per completezza d'informazione) la mia teoria (che i lettori del giornale ben conoscono) sono stato, illico et immediate, ridimensionato. Nessun personaggio politico di qualche peso sui è fatto carico di una iniziativa qualsiasi (una interrogazione, una lettera al presidente della Regione, una autointervista come pur s'usa).

E' questo atteggiamento passato di aperta sfiducia verso una proposta ragionevole, basata su un dato incontrovertibile (il numero di abitanti di una regione), che mi autorizza a sfidare (tra chi ha vinto e chi ha perso domenica scorsa) un deputato, un consigliere regionale, un ex ministro a farsi carico di una mobilitazione per riaprire la questione puntando decisamente alla intangibilità dell'assetto provinciale di Benevento quale si ottenne da Garibaldi e fu sancito da una delle primissime leggi del parlamento piemontese del neonato del Regno d'Italia in quel fausto 1861.

Benevento non intende chiedere nessun sacrificio territoriale a chicchessia (l'ha ottenuto 150 anni fa e ancora ringrazia). Gli basta essere la più piccola provincia della Campania. Ciò allo scopo di poter contare sulla solidarietà delle altre tre province e della città metropolitana di Napoli nella esaltazione della virtuosa condotta di questa  regione che non ha “giocato” a moltiplicare il numero delle province (cosa che è stato fatto da Nord a Sud isole comprese). Non è lecito passare con il panariello della tombola ed estrarre un numero per ogni regione. Prima di toccare la Campania devono pagare le regioni che hanno fatto la moltiplicazione dei pani (talvolta anche dei pesci).

Ribadisco il criterio da me proposto. E' quello che presiede al sistema elettorale proporzionale. Prendendo la popolazione dell'intera regione come bacino di confronto, la Campania con 5 milioni e 800mila abitanti e 5 provincie ha “quoziente provinciale” di 1.160.000 abitanti. Se si dovesse applicare questo criterio numerico a tutte le regioni, Benevento conserverebbe la sua provincia anche se in Italia ne rimanessero in piedi  51.

E' su questa “trincea” che vorremmo vedere schierati Del Basso De Caro e De Girolamo, Viespoli e Mastella, Zarro e Costanzo, Ferdinando Facchiano e Antonio Barbieri, Pietro Perlingieri e Mino Izzo e Davide Nava,nonché  i “regionali” Gennaro Melone, Ernesto Mazzoni, Fernando Errico, Sandra Lonardo (se dimentico qualcuno me ne scuso). E con loro i sindacati.

Perché dalla fine della Provincia conseguirebbe lo smantellamento di tutti gli uffici pubblici “organizzati” in funzione della territorializzazione  su base provinciale (Carabinieri, Guardia di Finanza, Questura, Prefettura, INPS, terminali di ogni ministero dal Lavoro all'Istruzione) nonché le strutture di coordinamento delle associazioni private (a cominciare dai partiti e dai sindacati, ivi compresi  quelli dei datori di lavoro quali Confindustria, Coltivatori Diretti, Confagricoltura, Confartigianato e così via). Tutte strutture rette da personale di diverse qualifiche con redditi stipendiali che fin oggi si spendono a Benevento. Con quale faccia ci potrebbe  essere ancora qualche politico o sindacalista che osasse parlare di misure per  commercianti, artigiani, agricoltori e di tutto quel “terziario” che fa massa nella valutazione del prodotto interno lordo?

Come si è perso il tempo migliore durante la battaglia referendaria per organizzare una sfida all'OK Corral anziché per approfondire i contenuti della riforma, così sarebbe un gridare alla luna se si continuasse nelle recriminazione di chi ha raggranellato il 32 per cento e nell'esaltazione di meriti indimostrati da parte di chi ha fatto salire al 68 per cento il suffragio del NO.

Il risultato elettorale deve essere la premessa per ritornare sulla dura terra e affrontare con spirito costruttivo ciò che interessa all'economia della nostra società. Le vendette, i duelli, le comparsate televisive non devono esaurire l'esistenza politica dei nostri rappresentanti.

Il NO di domenica scorsa ci ridà una istituzione importante alla quale occorrerà assicurare linfa democratica e funzioni precise, sia statali che regionali. A quelli che hanno già sbaraccato o hanno solo preparato le masserizie per trasferirsi ad Avellino rivolgiamo una umile preghiera. Tornate sui vostri passi e sui vostri pensieri. L'impegno, vero e onorevole, è qui. Nel segno di Salvatore Rampone e Antonio Mellusi.

O dobbiamo ancora sentir dire: ma chi mai erano costoro?

MARIO PEDICINI

Altre immagini