Arte e macerie Cultura

In una Napoli sorpresa nel vedersi aiutata proprio dagli americani che l’avevano bombardata nacque il detto ciacca e mèreca comm’ fanno i mericani. Lì, ogni volta che lo sento, avverto tutta la bonaria indulgenza partenopea. L’ho sentito di recente passando per Spaccanapoli davanti al Monastero di Santa Chiara, quello della famosa canzone, semidistrutto dalle bombe nel settembre 1943 e poi ricostruito con aiuti statunitensi. Un classico esempio di ciacca e mèreca.

Quella espressione popolare non si diffuse a Benevento, dove degli americani è rimasta una immagine di distruttori indifferenti ai problemi della città. Stanno però emergendo episodi come quello ricordato da Mario Collarile (Io, le macerie, il fango e lo sport, Ed. Realtà Sannita 2016) in cui un militare “muscoloso e nero” aiutò lui bambino, ed altri in difficoltà, su una rischiosissima passerella al Ponte Vanvitelli, restando poi ucciso in un confitto a fuoco con pattuglie tedesche in ritirata.

‘Macerie mentali’ rimasero in materia di beni culturali, uno scenario di squallide colpevolizzazioni e autoassoluzioni sul quale nel 2014 ha aperto spiragli di verità il film Monuments Men (Gli Uomini dei Monumenti) diretto da George Clooney, chiarendo al mondo che proprio americani e inglesi organizzarono in Italia una primissima task force militare per recuperare migliaia di opere d’arte ferite o rubate. Rubate dai nazisti, ma non solo.

Dell’abbandono totale delle opere d’arte beneventane e dei furti perpetrati nei momenti più tragici non si è mai fatta chiarezza. Anzi, se ne misero in circolazione versioni mistificate già dopo i primi bombardamenti. Ne riportò una nel 1946 un anonimo giornalista partenopeo che la interpretò così: “Nell'ottobre del ’44 entrò in Benevento la 45esima divisione di fanteria americana un cui ufficiale, vedendo affiorare dalle macerie della Cattedrale due formelle della Porta di Bronzo, se le infilò nello zaino”. Il giornalista condivise il sospetto di un furto, forse ignaro che proprio allora quelle due formelle venivano restituite all’Italia per merito di quell’ufficiale americano qui transitato con le sue truppe: specialista di Storia dell’Arte, il militare le sottrasse invece agli sciacallaggi dei tanti beneventani tra le macerie. Una vergogna, questa, di cui si evita puntualmente di parlare. Tornato in America, l’ufficiale consegnò le due formelle al Walker Art Center, il museo di Minneapolis (Minnesota), le studiò e pubblicò la notizia del recupero rendendone possibile la restituzione.

Il salvataggio delle due preziose sculture potrebbe sembrare dovuto alla casuale presenza di quella persona di elevato livello culturale. Ma non fu un caso isolato: qualche altro, meno noto, ha segnato la differenza tra l’etica comune anglosassone e quella italiana. Negli Stati Uniti finì un’altra opera d’arte di provenienza beneventana, di proprietà sconosciuta. Si tratta della statuetta medievale in marmo di un giovane inginocchiato, forse dei primi del Trecento. Fu un altro soldato statunitense a trovarla mentre il suo esercito eliminava macerie a vagonate. Anche questo salvataggio testimonia un modo civile di rapportarsi all’arte, vista come patrimonio culturale dell’umanità intera. E, manco a dirlo, quel soldato, benché non fosse uno studioso d’arte, affidò poi quella statua al Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City.

Sarebbe finalmente ora di dare il dovuto riconoscimento a chi, come Alfredo Zazo, con una carriola recuperò frammenti sparsi di archeologia e d’arte sfidando l’arraffa arraffa del momento. Ai racconti a me fatti da Zazo aggiungerei poi che l’egittologo Hans Wolfgang Müller stigmatizzò fortemente il fatto che troppi reperti del Tempio di Iside emersi dal sottosuolo con i bombardamenti si trovano in case private.                        

ELIO GALASSO

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