Dove nascono le fiabe, la trasmissione orale dei racconti a Benevento Cultura

Nel 1994 pubblicavo per i tipi di Realtà Sannita Antiche fiabe beneventane; quel libro piacque molto al nostro compianto direttore Giovanni Fuccio, di cui in questi giorni è caduto il terzo anniversario della scomparsa.

A narrarmi le fiabe furono diverse persone, oggi purtroppo scomparse: un gran numero furono raccontate da Margherita Capuozzo, nonna del mio amico Antonio Carapella; la Zinzola di sette bellezze fu raccontata da mia madre Carmela Pirozzi, che quest’anno avrebbe compiuto 100 anni o padre, Vincenzo Caruso mi narrò Mastro Fancisco il Valente. Tutti e tre i narratori erano beneventani, vissuti fino alla maturità nei quartieri popolari di Benevento: la zona del Ponte di Santa Maria degli Angeli, il Triggio, via Valfortore.

Come vennero a conoscenza delle storie narrate? Ascoltandole dalla viva voce di altri narratori, quando erano bambini. Nel caso di mia madre, la narratrice per lei era stata Concetta Pastore, una vicina di casa, al Triggio, già anziana quando mia madre aveva 8 o 9 anni. A sua volta, Concetta aveva ascoltato quella fiaba da bambina e quindi la Zinzola di sette bellezze contava quando mia madre me la raccontò già più di un secolo, secondo un calcolo solo approssimativo. Quanti altri narratori avrà avuto? Dove si è formata per la prima volta quella storia? Vladimir Propp aveva stabilito che i racconti fiabeschi si erano formati probabilmente nel Paleolitico, subendo modifiche e adattamenti secondo i periodi storici, ma conservando i nuclei narrativi originari. Tra questi motivi primitivi c’è la credenza della forza conservata nei capelli, come si può vedere nel personaggio biblico di Sansone.

Nella bellissima fiaba, L’uccello d’oro, raccolta dalla voce di Margherita Capuozzo, c’è un probabile riferimento al mondo dei cacciatori arcaici: si narra, infatti, di due fratelli, Tommasino e Pasqualino, abbandonati nel bosco dal padre, su istigazione della sua seconda moglie. San Giuseppe, venuto in loro soccorso, come il centauro Chirone con Giasone, provvede a insegnare loro l’arte della caccia. Divenuti adulti, il santo vecchietto dona loro quattro animali che li aiuteranno a cacciare per sopravvivere: un cane, un uccello, una volpe e una scimmia. Lasciato San Giuseppe e separatisi, si imbattono, prima Tommasino e poi Pasqualino, in una malvagia strega, che riesce a trasformare Tommasino in una statua di marmo insieme ai suoi animali. La strega avrebbe trasformato anche Pasqualino, ma questi capisce le intenzioni della megera e prima che quella possa gettargli l’incantesimo, egli la afferra per i capelli e chiede, mentre quella si divincola per liberarsi dalla stretta: “Dimmi, cosa ho in mano?” La strega per due volte risponde: “Ferro e acciaio”. Pasqualino non la molla, finché la vecchia non ammette che il ragazzo tiene in mano i suoi capelli.

Solo a questo punto la strega è vinta, Pasqualino la libera, certo che ella non potrà più fare su di lui i suoi incantesimi e salva anche il fratello e i suoi animali, fatti ritornare in carne e ossa.

In realtà, la tradizione popolare afferma che se si vuole ridurre all’impotenza una strega occorre afferrarla per i capelli e sarà lei allora a chiedere a chi l’ha afferrata: “Che tieni in mano?” Se quello, ingenuamente, risponderà: “Capille”, la strega potrà pronunciare la formula che le permette di liberarsi: “E ie me ne sfuie cumm’a n’anguille”. Per evitare che la strega si liberi, occorre rispondere: “Fierr’ e acciaro”.

Questa risposta blocca la strega e non le permette di pronunciare la formula per liberarsi, inoltre evoca elementi che hanno un potere protettivo contro le streghe.

Il ferro e l’acciaio (che è ferro temperato), infatti, sono considerati potenti amuleti, basti pensare al ferro di cavallo, utilizzato come portafortuna oppure al gesto di toccare ferro per allontanare una disgrazia o il malocchio, perché ha un’energia apotropaica.

PAOLA CARUSO

Nella foto la strega di Albrecht Dürer