Il Carnevale scomparso nelle tradizioni beneventane Cultura

La pandemia ha impedito le manifestazioni pubbliche, gli spettacoli, i concerti, ma anche prima dell’attuale tragedia, nella nostra città il Carnevale era diventato una festa da centro commerciale. Eppure, Benevento ha avuto una tradizione di festeggiamenti carnevaleschi, anche con momenti di grande aggregazione.

Il decennio degli anni ‘50 a Benevento, come nel resto d’Italia, fu un momento di grande vitalità. Malgrado le ferite inferte dalla guerra (bombardamenti del ‘43) e quelle inflitte dalla natura (alluvione del ‘49), la città reagiva; aveva una gran voglia di lasciarsi alle spalle un periodo di paura, miseria, dolore. Ne sono testimonianza le pubblicazioni curate dall’avv. Francesco Romano, detto Ciccio, una delle quali, Almanacco del Sannio, è del 1956, in cui Tito Margherini scrisse un articolo dal titolo: Il 1° Carnevale beneventano, documentato da bellissime foto dello studio Intorcia, che sono state riproposte recentemente anche sul blog di Nello Pinto, Benevento … c’era una volta, insieme ad altre sulla stessa manifestazione che si svolse nel febbraio del 1955, alla quale anche Enrico Salzano ha dedicato un articolo alcuni anni fa.

Le foto mostrano il Corso Garibaldi straripante di folla, che assiste alla sfilata di carri allegorici, sullo stile di quelli di Viareggio. I carri partirono dal capannone della ditta Nicola Russo, in via A. Diaz, una traversa di Viale Principe di Napoli, risalendo sul Ponte verso il Corso. Apriva la sfilata un gruppo di personaggi mascherati che rappresentavano Sua Maestà Karkadek con la sua tribù di feroci cannibali, un evidente ricordo coloniale di quella propaganda fascista che screditava gli africani e della quale ora si poteva ridere. Il primo carro allegorico rappresentava una gigantesca barca sulla quale vi erano enormi donne procaci in costume da bagno. Questo carro era contornato da fantocci, montati su persone, che raffiguravano degli ubriaconi gaudenti. Anche altri due carri allegorici proponevano il tema della spensieratezza e del paradosso, come si può desumere già dai loro titolo: Bando alla tristezza, un’allegoria della festa in tutto il mondo, e Non è mai troppo tardi, che mostrava due vecchietti innamorati. Durante quella festa memorabile vi fu un concorso canoro, che si svolse il 10 e 16 febbraio 1955 al Cinema Teatro Massimo, veglioni in maschera in Piazza Roma, malgrado il freddo e la pioggia, veglione al Jolly Hotel (precedente nome del President Hotel), un concorso di gruppi folcloristici di varie regioni sempre in Piazza Roma e un festival di maschere di bambini.

Quella manifestazione rimase un ricordo mitico in tanti beneventani delle passate generazioni, ma già prima in città si festeggiava per tradizione il Carnevale. Ne è testimonianza una bellissima foto conservata al Museo di Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo (MI), scattata dal celebre capostipite dei fotoreporters di oggi, Federico Patellani, durante un Carnevale beneventano del 1952, nella quale un uomo, col volto dipinto e con un cappello a cilindro ricavato dalla carta di giornale, reca in mano un faro di automobile collegato a una batteria da fili che circondano il corpo del personaggio. La piccola folla di ragazzini che lo circonda mostra i segni della miseria di quegli anni nei vestiti sgualciti dei più grandi e nella maglietta sudicia del più piccolo.

La tradizione ci ha consegnato però anche il ricordo di Carnevali più antichi. Francesco Corazzini trascrisse nel 1877 I dudece misi, una rappresentazione carnevalesca di strada in versi sui mesi dell’anno. Mia madre si ricordava di quando l’aveva vista recitare insieme ad altri classici carnevaleschi beneventani: ‘A Zeza e ‘A Zingarella, i cui testi tramandati oralmente, sono definiti mascherate. La prima, che spesso è detta anche Zeza beneventana, racconta la vicenda della figlia di Pulcinella, Vincenzella che, con la complicità della madre Zeza, incontra di nascosto il suo spasimante Don Nicola, ma, sorpresa da Pulcinella che minaccia una strage, deve faticare per rabbonirlo e ottenere il consenso per le nozze. La recitazione procede su un motivetto che si ripete uguale per tutta la rappresentazione, tanto che zeza è passato a significare qualcosa di insistente e monotono (ad esempio a un bambino che piange insistentemente, si può dire:“Ih, che zeza ch’é ‘bbiàte!”- Ih che storia che hai comonciato!), essa è stata riproposta con successo da Peppe Barra sin dal 1974, col titolo La canzone di Zeza.

Meno coerente è la trama della Zingarella, una mascherata col fuoco, cioè recitata in strada con grande dispendio di bòtti e mortaretti, per creare l’atmosfera infernale. Da quello che è dato capire dell’intreccio, ci troviamo di fronte a una reminiscenza della ricerca da parte della dea Demetra di sua figlia Persefone, simile per certi versi alla vicenda del Flauto Magico di Mozart, in cui la Regina della Notte cerca sua figlia Pamina, che è prigioniera del Mago Sarastro.

Tra i personaggi della Zeza ci sono Pluto e Satana, un Mago incantatore, Pulcinella, che con le sue rime strampalate crea un contrasto paradossale alle battute degli altri personaggi che usano un linguaggio che vuol essere aulico, la Regina, la Reginella, il Re, la Zingarella, il Guerriero, il Turco, la Damigella. È proprio la Zingarella che rivela alla Regina che la Reginella è in potere del Mago. Ma la vicenda si rovescia proprio come nel Flauto Magico di Mozart: in realtà la Regina cerca la figlia per ucciderla e il Mago è il suo salvatore. Il testo di questa e altre mascherate è stato raccolto e trascritto fortunatamente da Erricoberto Pepicelli e pubblicato in un volume del 1995 edito dal Comune di San Leucio del Sannio, il paese che mantiene viva la tradizione del nostro Carnevale riproponendo queste rappresentazioni popolari e che ha creato una sua maschera, Core Contento, originata dalla statua, che secondo una tradizione Louis De Beer, governatore napoleonico di Benevento, donò nel 1809 ai marchesi Zamparelli.

Anche la cucina della festa si è un po’ modificata. Resta l’uso di Carnevale di mangiare la lasagna, la buona pasta al sugo imbottita di carne trita e formaggio. Nelle case contadine è il tempo in cui si comincia a consumare la salsiccia messa a seccare da dicembre. Ormai, la salsiccia sospesa alla pertica, a febbraio, ha assunto una consistenza che si definisce “scamosciata”. A Fragneto Monforte i bambini a Carnevale girano per le case per chiedere di assaggiare la salsiccia nuova, augurando che essa potesse andare a male se gliel’avessero rifiutata, recitando questa formula:

Carnuale, carnualicchie,

damme nu poche de sausicchie,

e si nun me la voi da’

ca se pozza ‘nfraceta’

Il freddo consente di mangiare cibi sostanziosi, specie per chi deve lavorare i campi: una padellata di uova e salsiccia, la pizza piena manco a dirlo di uova e salsiccia, le chiacchiere fritte e spolverate di zucchero e miele, le castagnole pure fritte e asperse di liquore e zucchero.

Re dei dolci sanniti era il sanguinaccio, confezionato col sangue di maiale, cacao, zucchero, canditi e pinoli, oggi caduto in disuso per evidenti motivi igienici, ma anche a causa di cambiamento dei gusti, e sostituito da creme al cioccolato, che mancano di quella consistenza un po’ granulosa e di quel sapore così peculiare conferiti dal sangue.

PAOLA CARUSO