Il tuffo Cultura

Lasciarsi imprigionare da pensieri, emozioni, sensazioni in un momento che segna drammaticamente la vita? O accettare ciò che ci rimane intorno, in modo che la mente si avvii consapevole verso il nuovo? Ne discutevano i filosofi greci e ci sto provando anch’io dopo la perdita dell’amico Giovanni Fuccio, Direttore di ‘Realtà Sannita’. Mi provocava, cambiavo discorso, proponendo per esempio di andare insieme a Paestum. Per anni ho desiderato che vedesse uno straordinario dipinto, uno dei punti fermi della mia formazione professionale, ma lui s’era sempre scansato: “Elio, tu vuoi vedere quanto ne so di pittura antica. Poco vabbè, ma non niente, comunque so che da Paestum i Sanniti importavano opere d’arte greca… Se quelle opere stanno a Benevento fammele vedere qui, perché a Paestum non ci vengo finché tu non scrivi un libro per le mie edizioni. E poi ci andiamo, perché no, chi vivrà vedrà…”.

Volevo vivere l’impatto personale di un intellettuale sensibile come lui con il capolavoro che tutti chiamiamo Il Tuffatore di Paestum, una immagine che adesso mi parla come “l’attimo prima”. Col sorriso impertinente Giovanni mi ha sempre ripetuto la sua richiesta di scrivere un libro per lui, e ancora non l’ho accontentato. Il suo ‘tuffo’ non interrompe il dialogo, anzi mi consegna pensieri da accudire. È come quando, abbandonati nell’abitudine, rischiamo di non far caso a dove siamo arrivati.

La cornice fiorita che inquadra questa scena del secolo V a.C. sembra disegnata da un artista liberty del primo Novecento”, mi venne da dire, quando assistevo al restauro dell’affresco col Tuffatore di Paestum nel laboratorio del Parco Archeologico. Parlavo al suo scopritore, il Soprintendente Mario Napoli, che mi aveva delegato la Direzione del Museo del Sannio a lui affidata dalla Provincia di Benevento nell’autunno del 1970. Si era ormai diffusa nel mondo la notizia del rinvenimento nel 1968 di quel dipinto parietale greco, l’unico pervenuto fino a noi. “Figurine liberty potresti definire anche i due riccioluti alberelli laterali - mi rispose il grande archeologo - ma la collinetta sullo sfondo riconduce al vero, potrebbe essere quella della vicina Agropoli”. Lui aspettava che col restauro emergessero dettagli di conferma, io navigavo tra pensieri assurdi. Avevo notato nella scena qualcosa di misterioso.

La lastra del Tuffatore, recuperata da una camera funeraria sotterranea, è esposta oggi nel Museo Archeologico Nazionale di Paestum. Al centro c’è una collina a far da sfondo, poggiata sulla cornice fiorita da cui spuntano due alberelli. A destra una struttura muraria regge un trampolino: da lassù un uomo nudo si tuffa a testa in giù con le braccia protese verso..… verso cosa? L’acqua in cui si sta tuffando non c’è! La scena simboleggia l’immergersi umano nell’aldilà, a capofitto nell’ignoto.

Ma come mai manca l’acqua che accoglie il tuffatore? La scena non avrebbe avuto lo stesso significato se l’acqua fosse stata dipinta? L’artista intendeva forse sottolineare che quell’uomo rinunciava anche al colore azzurro del mare insieme alle onde alterne della vita? Fantasie: bisogna procedere sulla base di prove, approfondire problemi di religione e antropologia, di storia e arte, fino ad arrivare alle questioni dello spettro cromatico dei popoli antichi, tanto diverso dal nostro. Un campo poco esplorato.

Come era l’azzurro per i Greci? Possibile che l’anonimo artista di Paestum non vedesse il colore azzurro? E cosa vedeva quando guardava il mare? Certamente non tutti gli artisti vedono uguale. “Il mare è nero” mi disse infatti il famoso pittore Alberto Burri nel 1978 quando portò a Napoli alcune sue opere da esporre nel Museo Nazionale di Capodimonte. Non ne capii il senso fino a quando il Direttore del Museo Raffaello Causa mi chiese di classificarle aprendo i cartoni d’imballaggio: constatai sbalordito che, messe sul pavimento, le opere di Burri formavano un vero e proprio mare nero. Quel nero nasceva però dalla loro struttura materiale, serviva a trasmettere sensazioni fisiche. Il Tuffatore di Paestum rimanda invece alle emozioni che arrivano dal mondo spirituale. La soluzione che cercavo stava…. nell’acqua.

Strano, per noi oggi, il rapporto visivo che i Greci avevano con l’acqua. Per definirla usavano l’aggettivo leukòs, cioè trasparente e quindi invisibile, perché poche cose si lasciano attraversare dallo sguardo come l’acqua che consente di vedere tutto ciò che contiene fino al fondo. Molti poeti greci hanno scritto che “l’acqua è qualcosa che c’è ma non si vede”. L’ignoto autore della scena del Tuffatore di Paestum era greco e, se avesse dovuto definirla a parole, avrebbe detto anche lui che l’acqua è leukòs, trasparente. Essendo un pittore la dipinse… invisibile, qualcosa che non si vede. Ma c’è.

ELIO GALASSO