La Stele del Cavaliere Tracio, un reperto unico in terra sannita Cultura

L’ameno paese di Pago Veiano ha una caratteristica che lo contraddistingue e lo rende unico rispetto a tutti gli altri: la presenza, nel suo territorio, di un cippo votivo dedicato alla divinità del Cavaliere Trace, molto diffuso nell’ambiente militare delle regioni balcaniche.

Pago Veiano ha anche un’altra caratteristica che lo rende unico rispetto agli altri paesi sanniti: la quasi totale indifferenza per il proprio patrimonio storico archeologico.

Abbiamo recentemente fotografato la bellissima stele e non l’abbiamo trovata in buona salute. Appoggiata com’è davanti alla chiesa arcipretale, sulla pubblica piazza, su un basamento che la sorregge, la stele, di pietra calcarea, facilmente degradabile, esposta a tutte le intemperie, non protetta da teche, già vandalizzata nel passato, presenta oggi una larga macchia scura ed un affossamento nella parte superiore, sulla testa del cavaliere, che prima non c’erano.

Alcuni anni fa il prof. Elio Galasso, che dirigeva il Museo del Sannio (conducendo tra l’altro studi e ricerche di grande spessore, altra cosa che nel capoluogo sono solo ricordi del passato), invitato ad una conferenza storico-archeologica in paese, lanciò il suo grido di allarme: «Avete un pezzo unico, raro, che non è presente in nessuna parte d’Italia. Cosa aspettate a costituire un museo civico»?

Ovviamente, nei paesini dove le comari non brillano certo di iniziativa e nemmeno certi politici, la cosa non ebbe alcun seguito, ed il cippo rimase dov’era.

Sembra che la sua presenza non sia particolarmente interessante nemmeno per i rari studiosi locali, ed infatti forse ci si accorgerebbe della sua presenza solo se fosse distrutto o derubato.

Eppure anche l’Ept di Benevento, sulla sua pagina web, lo segnala come oggetto da ammirare. Mentre nella Biblioteca Provinciale di Benevento è possibile reperire l’unico, breve studio, ad esso dedicato, tra l’altro scaricabile anche online all’indirizzo www.persee.fr/doc/mefr_0223-5102_1990_num_102_1_1671.

Il mini saggio, contenuto nella rivista di antichità “Mélanges de l’école Française de Rome”, Tomo 102, anno 1991, è a firma della studiosa Rosaria Collina, che fu sollecitata allo stesso da un archeologo di calibro, il prof. Johannowsky.

In tale saggio si descrivono innanzitutto le caratteristiche del cippo.

Bellissimo a vedersi, anche se molto rovinato, esso presenta nella parte anteriore l’immagine di un cavaliere con una testa spropositata rispetto al cavallo su cui siede, che pare più un cane che un cavallo, anche perché i piedi del cavaliere poggiano praticamente a terra. È specificato che questo tipo di raffigurazione “corrisponde ad un’iconografia comune alla maggior parte dei rilievi” di questo tipo. Mancano la parte posteriore, la coda e il muso del cavallo, poiché, come già detto, il cippo è molto rovinato. Il cavallo è in corsa verso destra e sembra che il suo zoccolo destro poggi su un qualche basamento. Sotto questa scena vi è una scritta illeggibile nonostante i calchi di gesso ed i calchi calcarei utilizzati per decifrarla. A destra è visibile una figura di profilo che fra le mani ha forse una cornucopia, mentre a sinistra vi è una figura simile, rappresentata di prospetto, che probabilmente in mano aveva un arco.

Sul lato destro del cippo si trova un personaggio avvolto da un mantello, il cui volto e la cui acconciatura non sono chiaramente distinguibili. Si vedono gli occhi di forma tondeggiante. Potrebbe essere una dea che è spesso raffigurata sui rilievi dei Cavalieri Danubiani, rappresentata sempre velata, sia a figura intera, sia a mezzobusto. Il Cavaliere potrebbe galoppare verso la dea velata (si veda Soyanov)?

Il lato sinistro del cippo è invece ormai perduto, perché totalmente rovinato e si vedono vaghe forme di quello che poteva esservi raffigurato.

La studiosa precisa che di questo culto fuori dell’area balcanica possediamo tracce solo in Italia. E passa quindi a formulare delle ipotesi.

La prima è che, forse, un veterano di origine trace, stabilitosi nel beneventano, nell’ager publicus disponibile, potrebbe essere stato il committente del cippo.

La seconda ipotesi per giustificare la presenza del culto al Cavaliere Trace in questa parte di Sannio è che i pretoriani possano essere stati presenti a Pago Veiano, paese collocato sull’itinerario del tratturo poi divenuto la strada di collegamento Pescasseroli-Candela, importante snodo su cui si svolgevano grossi movimenti di greggi. Il culto potrebbe dunque essere stato importato proprio dai pretoriani, i quali, dopo la riforma di Severo, erano reclutati nella regione balcanica. Ciò consentirebbe di datare il cippo di Pago Veiano nella prima metà del III secolo d.C.

La bellezza del cippo e la quantità di significati simbolici che esso racchiude avrebbe dovuto suggerire, ormai da tempo, di dare una sistemazione più degna a questo reperto, cioè, insieme a tutti i numerosi reperti trovati nelle campagne di Pago, quella sistemazione museale che auspicava Galasso. Avrebbe dovuto creare quel movimento di studi e ricerche e quell’attrazione turistica che renderebbe meno abbandonati questi posti.

Anni fa alcuni appassionati avevano in animo di creare una sezione dell’Archeoclub. La cosa naufragò miseramente, per dissidi interni, per mancanza dell’attrezzatura culturale legata a certi temi, nonché della capacità divulgativa intorno alle proprie risorse.

Eppure sarebbe bello creare un grande evento come “2018: L’anno del Cavaliere Trace”, con eventi, gemellaggi con qualche zona balcanica che possiede reperti simili, convegni su arte e storia locale.

Sarebbe bello accendere i riflettori su questa parte di Sannio dimenticata o misconosciuta, anche collaborando con Università, Fai, scuola, archeologi.

Sarebbe bello che si pubblicasse qualche tesi di laurea in Architettura o Storia dell’Arte su questo reperto…

Ma non mi faccio illusioni.

Pago Veiano ha già subito in passato il saccheggio della sua storia. Si è visto depredare molti dei suoi reperti. Ha poi visto scorrere la sua notevole storia sotto una spessa coltre di indifferenza.

Dunque, in tale contesto, meglio inneggiare alla festa cafona come se fosse un evento planetario e vivere per raccattare “like” su facebook, con selfie di fine anno in stile presidenziale, privi di reali contenuti in merito ad azioni di sviluppo, per un paese che vede i suoi giovani solo per una breve stagione, prima che prendano il volo verso realtà che possano loro offrire ciò che un paese, da sempre male amministrato e gestito come questo, non può loro dare.

LUCIA GANGALE

Foto di Annamaria Gangale per Realtà Sannita ©

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