Li ditti antichi, il beneventano che scompare Cultura

Il dialetto beneventano di oggi è assai diverso da quello parlato dai nostri concittadini nati prima della Seconda Guerra Mondiale, quando cioè la città di Benevento era ancora essenzialmente limitata al centro storico, ma già si estendeva verso Nord, oltre il Ponte sul Calore, da Piazza Bissolati verso la Stazione sin dall’inizio del Novecento, e verso Sud, oltre la Rocca dei Rettori, dove già c’erano la Caserma Guidoni e il Convento San Felice.

Il dialetto beneventano autentico era quello degli abitanti del Triggio, assai diverso per intonazione dalla parlata delle generazioni nate nel nuovo quartiere post-bellico, il Rione Libertà, oltre il Ponte sul Sabato, dove, almeno fino agli anni Settanta, sembrava esserci una cadenza differente addirittura tra coloro che abitavano il lato destro (uscendo dalla città) di Via Napoli, ribattezzato, in modo scherzoso e un po’ razzista, quartiere Shangai, nei quali l’inflessione appariva più nasale, e quelli che abitavano la zona a sinistra di Via Napoli, detta, in antitesi all’altra, Hong Kong.

È necessario premettere che per rendere il suono indistinto che chiude tutte le parole pronunciate in dialetto, utilizzerò il simbolo dello schwa: “ə”, una e capovolta che si si articola a metà strada tra “a” ed “e”. L’uso di questo simbolo permetterà anche ai non beneventani di leggere bene le parole del nostro dialetto.

Ci sono parole che stanno scomparendo dal dialetto insieme alle attività che esse testimoniavano. In ambito casalingo, le buone massaie di un tempo facevano il pane e la pasta fatta in casa. L’impasto di farina si faceva “dint’ a fazzatorə”, cioè nella madia, una piccola cassa di legno di forma a tronco di piramide a base rettangolare. L’attrezzo per tirare la sfoglia di pasta, ottenendone lasagne o fettuccine, è “‘u lavənaturə”, il mattarello, spesso impugnato come randello dalle mamme di un tempo per minacciare i figli discoli: “Tə pigliə c’u lavənaturə!” Il suffisso -urə si usa, nel nostro dialetto, in molti nomi di oggetti d’uso, come ad esempio “maccaturə / muccaturə”, cioè il fazzoletto. Il suffisso sembra appunto avere il significato: che serve per … Ad es. “lavənaturə” quindi serve per fare la “làvənə” o “làgənə”, cioè la sfoglia di pasta. Nel caso del fazzoletto, esso serve per … il muco. Quando nell’impasto di farina non ci sono uova, allora è “na lavanellə”, cioè senza consistenza; questa parola può essere anche un epiteto rivolto a qualcuno che non è di carattere forte, un vigliacco. Spesso tagliata grossolanamente a rombi, la sfoglia serviva per fare una pietanza saporitissima: “làvənə e cicərə”, pasta e ceci.

La buona massaia di un tempo non aveva la lavatrice; il bucato lo faceva a mano, se fortunata, in casa, quando aveva l’acqua corrente, altrimenti alla fontana o al fiume. Per lavare si usava “‘u rannə”, parola di origine longobarda che indica una soluzione di acqua bollente e cenere di legno, utilizzata come detersivo. La cenere in dialetto si chiama “lisciviə” o anche “lissiviə”, che contiene naturalmente soda caustica. Si faceva colare lentamente in una conca l’acqua bollente sulla cenere (a volte per ore), si otteneva una soluzione alcalina detta appunto ranno o liscivia, per questo colare l’acqua, l’operazione del bucato era detta “a culatə ‘e pannə”. Sapienza e fatica delle passate generazioni.

PAOLA CARUSO

Immagine: Filippo Palizzi (XIX sec.), Donne che lavano al fiume