Perle democratiche Cultura

Smetteremo mai di chiamare ‘false’ le perle coltivate, anche se - o forse proprio perché - indistinguibili allo sguardo da quelle naturali? Vistose, non troppo costose, le chiamerei piuttosto perle democratiche, una fortuna per le donne che da centotrent’anni esatti non sanno più farne a meno.

Nel 1893 il giapponese Kokichi Mikimoto intuì la possibilità di produrle mediante la fecondazione artificiale dell’ostrica: tenuta in acqua salata, nel guscio le venne introdotto un granello di sabbia per stimolarla a difendersi con la sua sostanza gelatinosa.

Avvolto da strati progressivi, quel grumo diventò in breve una ‘perla’. L’enorme richiesta del mercato d’abbigliamento femminile indusse a coltivar perle anche in acqua dolce e a modellarle in ogni forma desiderata, con sfumature cromatiche e lucentezza superiori a quelle nate dal caso sui fondali marini.

Estranee ai popoli del Mediterraneo - non agli Egizi che le prelevavano dall’Oceano Indiano e dal Mar Rosso - le perle penetrarono nel mondo greco con le conquiste di Alessandro Magno in Medio Oriente. Fortemente seduttive, divennero simbolo di Afrodite dea dell’amore. Se ne incuriosirono i Sanniti nell’Italia preromana, ma non ne sono state trovate nella pur ricca necropoli di Caudium (Montesarchio), qualcuna peraltro dipinta nelle scene delle sue ceramiche importate dalle colonie di Magna Grecia, come Il ratto di Europa con una collana di perle raffigurata sul famoso Cratere di Assteas del IV secolo a.C.

Di perle parlano invece gli abbigliamenti delle matrone romane. E ovviamente le leggende: innamorata non corrisposta di Marco Antonio, Cleopatra regina d’Egitto propinò al grande condottiero una pozione magica ottenuta da due perle immerse in aceto; Marco Antonio bevve dalla coppa e s’innamorò. Ma avrebbe fatto meglio a lasciar perdere, scrisse Plinio il Vecchio, perché le perle portano sfortuna. Dopo pochi anni infatti Marco Antonio si suicidò e Cleopatra si lasciò avvelenare dal morso di una serpe. La leggenda aggiunge che l’unica superstite di quelle due perle fu tagliata a metà per farne orecchini alla statua di Venere nel Pantheon. Perduta nei secoli la scultura, qualche turista va ancora lì a cercare negli angolini…

Come ho documentato nel volume Oreficeria medievale in Campania e nel successivo Langobardia Minor, scarseggiavano nel Medioevo le perle nelle Corti principesche della Longobardia del Sud Italia. Un caschetto di perle con una croce sembra poggiato a mo’ di corona sul capo del principe Arechi II raffigurato sul suo Soldo d’oro beneventano. Abbondavano invece nella sontuosa Corte imperiale di Bisanzio e a Ravenna, capitale bizantina in Italia.

Da quell’epoca tuttavia non ha più goduto di gioielleria prestigiosa la città di Benevento, costretta a guardare da lontano le rare sferette di luce che hanno incantato poeti e pittori come Sandro Botticelli che nel Quattrocento arrivò a immaginare nata da una conchiglia anche la dea dell’amore Venere, o come Jan Vermeer autore della Ragazza con orecchino di perla dal classico colore chiaro.

Le perle naturali a volte hanno pregiatissimi toni cangianti, dal grigio argento al rosa pallido, dal viola scuro al nero inquietante. Solo chi non lo sa spera di intravedere nel piatto d’ostriche al ristorante qualche riflesso di ‘vero color perla’, giusto per evitare che un bianco gioiello luccicante possa finirgli in bocca, o forse per accaparrarsi una di quelle calamite di sguardi e di sogni scansando la folle spesa.

Molto più variegato il panorama delle perle democratiche. Da quando è intervenuto l’inventore giapponese, si fa a gara dovunque per produrne di ogni forma e dimensione, anche con impasti multicolori. Ne vuoi una che resista al sudore della pelle e rifletta inalterati lo splendore del sole, il romantico chiar di luna, il fremito delle stelle? Non vuoi più correre il rischio che la tua ‘perla vera’, se ne hai una, ti cada nella coppetta di aceto che stai usando a tavola e si sciolga trasformandolo in pozione magica come successe a Cleopatra?

Nessun problema, non sono più indispensabili gli audaci cercatori subacquei e, ormai, non serve più nemmeno acqua salata o dolce per le colture perlifere: la scienza sta insegnando all’industria della bigiotteria come realizzare qualsiasi perla tu desideri, facendo a meno perfino delle ostriche! Per questo, quando passa una donna, nessuno più si domanda che tipo di perla stia sfoggiando, l’importante è immaginare che sia ‘vera’.

Benevento, terra di magie avvolta dalle acque di fiumi, dovrebbe chiedersi se esista al mondo qualcosa di più ambiguo di una ‘perla vera’, nata da terra e acqua insieme, anfibio dono della natura che ogni tanto nasce chissà dove nel mare da un animale aggredito da granelli di sabbia per emergere poi sul corpo femminile.

Introvabile per chi va a cercarne una, rischiosa da pescare tra gli squali, la ‘perla vera’, ammettiamolo, si circonda di mistero col suo fascino malioso, soprattutto se esibita per simularlo, e in tal senso una collana di perle tra le mani di una donna diventa arma più pericolosa del filo di un rasoio. Forse per questo le seduttrici d’una volta la chiamavano “il filo”, l’ultimo ornamento da indossare per farsi belle, il primo da togliere con cura in un incontro d’amore.

Tanto sono state credute indispensabili le ‘perle vere’, che la mitica stilista Coco Chanel provò a capovolgerne il senso nell’immaginario universale. Lei indossava perle a valanga, ma tutte rigorosamente ‘false’, come per dire: “di perle vere ce n’è una soltanto, e quella sono io!”.

E’ arrivata dunque l’ora del tramonto per la perla veramente vera? Che abbia portato sfortuna perfino a se stessa? Direi piuttosto che a portare sfortuna alle ‘perle vere’ sono state proprio le donne da quando hanno cominciato a pretendere che quell’oggetto del loro eterno desiderio venisse moltiplicato all’infinito, diventando democratico.

Ormai ogni donna sa bene quanto poco valgono le proprie perle: quando cala la notte e si libera di vesti, anelli, bracciali, orecchini, e depone la collana di perle sul comodino come in un rito, è consapevole di avere disorientato il mondo. Ma non intende certo “perdere il filo”.

ELIO GALASSO