Sparire con Luciano De Crescenzo Cultura
“Ma quali nobili c’erano ancora a Benevento nel Seicento se mille anni prima era sparito pure il principe Arechi, scappato a Salerno per sfruttare il mare? Chiamateli pseudo-nobili e non dimenticate la povera gente”. Così Luciano De Crescenzo reagì in una libreria di Napoli, interrotto mentre presentava il suo libro Storia della filosofia medioevale. Un ascoltatore tentava invece di dire che erano ‘nobili veri’, costretti col tempo a vivere di prestiti nella città pontificia e poi nel Seicento a trasferirsi nel circostante Viceregno spagnolo per i tassi usurari imposti da plebei ‘nuovi danarosi’. Ma De Crescenzo precisò: “No, erano pseudo-nobili dediti alla bella vita, sparivano per farsi i fatti propri. Pensate piuttosto a Giulio Cesare Cortese che a Napoli dovette sparire per difendere i diritti delle vajasse”. Ma accortosi che nessuno dei presenti lo conosceva, si alzò e… sparì anche lui dietro le quinte!
Nella Benevento del Seicento i ‘nuovi danarosi’ erano professionisti e funzionari senza scrupoli, prestavano denaro ai nobili in crisi finanziaria per accaparrarsi le loro tenute di campagna e cederle in subaffitto ai bisognosi di lavoro. De Crescenzo voleva orientare la conversazione su un versante umoristico, la strana tentazione di sparire che prende anche oggi alcuni personaggi, basti pensare al caso di Philip Roth, l’autore statunitense del romanzo Lamento di Portnoy, che nel 2012 disse a una amica “vado a vivere come un babbeo” e sparì fino a poco prima di morire nel 2018. Per non dire di Greta Garbo, Mina… Sarebbe stato interessante conoscere Giulio Cesare Cortese raccontato da De Crescenzo: scrittore tipico della Napoli seicentesca, nel poema La Vajasseide aveva cantato l’epopea femminista delle vajasse, servette tenute quasi da schiave nelle dimore dei nobili:
Io canto commo so' belle e bertolose (1)
le Vajasse de chesta citate,
e quanto so' iocarelle e vroccolose, (2)
màsseme quanno stanno 'nnammorate.
(1.Virtuose 2. Sfiziose come i broccoli)
Rischiava il Cortese, non solo politicamente, perciò per continuare a sostenerle chiese la complicità del suo amico poeta Giambattista Basile: “Voglio fa ’o muorto, tanto ormai co’ lo tiempo e co’ la sciorta ho già jocato li meglio anne de la vita mia”. Si autocondannava a sparire, ma Basile stette al gioco. Vestito a lutto in una piazza affollata, nel 1627 annunciò… ’a morte ’e sùbbeto, la morte improvvisa del Cortese. Con un vibrante elogio funebre ricordò il poema La Vajasseide nel quale il ’caro estinto’ aveva affermato che la vita povera della plebe napoletana valeva molto più di quella futile dei nobili ricchi. Il popolo si immerse nel lutto, aumentò i ceri accesi davanti alle edicolette sacre delle vie, espose teli neri sugli scalini dei ‘bassi'. Commosso, Giulio Cesare Cortese andò in incognito alle cerimonie del proprio funerale nei quartieri di Napoli, in lacrime.
Da allora inondò la città di libelli contro la nobiltà, firmandoli con i nomi dei poetastri che lo avevano sempre invidiato e definito brutto nano. In quelle pagine si riconoscevano le sue idee, il suo stile, ma credendolo morto molti ritenevano che le scrivesse il suo maligno fantasma. Per motivi scaramantici venne così distrutto ogni cimelio di Giulio Cesare Cortese e di lui non è rimasto nemmeno un ritratto. Il titolo dell’ultimo suo poemetto, La tiorba a taccone, si richiamava al chitarrone con grosso manico usato a Napoli per le serenate d’amore. Dedicato all’amata Cecca, con termini popolareschi oggi scomparsi spicca il Sonetto “Lo nomme e la bellezzetùdene de la dama sója (1)”:
Cecca se chiamma la Segnora mia,
la faccia ha tonna comm a ’no pallone,
ha lo colore justo de premmone (2)
stato ’no mese e cchiù a la vocciaria (3)
Ha l'uocchie de cefescola (4) o d'arpia,
ha li capille comme l'ha Protone (5);
’no pede chiatto ha dinto a lo scarpone,
che cammenanno piglia meza via.
È cchiù bavosa che non è l'anguilla,
cchiù sapurita che non so' le pere:
bellottola cchiù assai d'Annuccia e Milla.
Si ’aie desederio de guadagno avere
tiene l’Ammore dint a ’na gajola (6), e strilla:
“A tre tornise chi la vò vedere”
(1.sua 2.polmone 3.macelleria 4.civetta 5. Plutone dio dell’abbondanza 6.gabbietta)
Ormai nauseato dalla indifferenza dei nobili napoletani, nel 1646 il poeta firmò La tiorba a taccone col significativo pseudonimo ‘Felippo Sgruttendio de Scafato’, originario cioè di Scafati, un comune dove il Vesuvio toglie la città partenopea totalmente dalla vista. Erano passati ben diciannove anni da quando mimetizzato tra il popolo Giulio Cesare Cortese aveva pianto nei vicoli la propria morte. Tanti avvertivano ancora la sua mancanza: per non deluderli sparì per sempre.
ELIO GALASSO