Stregati dai gioielli del silenzio Cultura

Si avviarono lungo Vico Noce nel quartiere Trappeto tralasciando la Chiesa di Santa Sofia, senza… chiedere scusa all’UNESCO. Insieme ai docenti si fermavano davanti ai dettagli. Ad un tratto, nell’intrigo dei vicoli, una studentessa esclamò “se non fosse per tutti questi frammenti romani che mi circondano, non saprei in quale città mi trovo!” Si riferiva a capitelli e lapidi d’ogni genere, statue, rilievi e fregi, resti di scultura sannitica di età romana. E sapeva che l’incastrare a vista nei muri quei materiali ricavati da monumenti per ricostruire le case distrutte dai terremoti del 1688 e 1702 aveva fatto nascere a Benevento un popolare gusto decorativo.

Cercare gioielli del silenzio era il loro obiettivo, scovare l’imprevisto anche dal punto di vista urbanistico nel centro storico risparmiato dai bombardamenti bellici. Profittai di una esitazione davanti a un cunicolo strettissimo per intervenire: “Provate a entrarci a due per volta, capirete perché qualcuno lo chiamava… vicolo dei baci”. Fotografavano ma non registravano i luoghi delle singole scoperte, convinti di poterli ricordare. Davano nomi di fantasia a stradine terminanti sulla facciata di una casa, pontili e giardini pensili, torri merlate svettanti sui tetti, edicole con madonnine e santi, fontanelle inaridite, scalinate in discesa e scalini per sedersi davanti alle soglie, maschere a bocca spalancata, brandelli di sculture di gladiatori armati, figure comiche che prendono in giro chi le guarda, ritratti di persone nella dignità della morte e uomini accovacciati che si grattano… un piede.

Certo, in quelle aree non si sbircia più nelle botteghe del fornaio, del calzolaio, del salumiere, del falegname, del sarto, che un tempo popolavano i ‘bassi’; non c’è bisogno oggi di scansare persone indaffarate e bambini che giocano, o di lasciare i basoli di lava arroventati dal sole per passare all’ombra onnipresente. Né ci si deve riparare da carrette e calessi, anche se si possono immaginare i cavalli che scivolavano sui pavimenti stradali lastricati ‘a sferracavalli’, ciottoli di fiume levigatissimi che disegnavano una linea centrale imposta dagli Statuti cittadini come limite per pulire davanti casa.

Seguii a distanza il momento formativo di quei giovani mentre si intrufolavano nei cortili dei palazzi, negli anfratti delle chiese, arrivando poi nel Triggio e oltre Port’Arsa, per risalire da Piazza Dogana a Piano di Corte e raggiungere attraverso il quartiere Tréscene la Rocca al culmine delle mura urbiche. Non chiesi la loro provenienza, lasciandoli in preda alla malia dei misteriosi manufatti collocati qua e là da streghe antenate per far sentire a casa propria ogni beneventano consapevole. Con il classico gioco del “so che c’è ma non so più dov’è” la loro mente sarebbe poi tornata alla sfida più incalzante di quei gioielli del silenzio, che molti non conoscono e non guardano mai.

ELIO GALASSO