La disoccupazione giovanile non dipende dalla generazione choosy Economia

L’Italia è sempre meno, o non è mai stato, un Paese per giovani.

Uno dei problemi più pressanti e attuali nel nostro Paese è sicuramente la mancanza di lavoro che, a causa della situazione economica, sanitaria e geopolitica risulta sempre più difficile da trovare. Chiusure forzate dalla pandemia e investimenti in frenata, anche, per i venti di guerra che soffiano sull’Europa, hanno dato un durissimo colpo all’imprenditoria e alla sua capacità di offrire opportunità occupazionali adeguate e dignitose.

Non migliore è la situazione anche nei settori che non hanno risentito della crisi, o che comunque prima degli altri sono riusciti a riprendersi dove, a fronte di un alto numero di disoccupati, si sono notevolmente assottigliate le proposte stipendiali con una incresciosa tendenza al ribasso.

Sono decine le lamentele che alcuni imprenditori affidano a giornali e tv per segnalare le difficoltà nel reperire figure professionali da inserire nella propria azienda fatte, forse, più per aizzare l’opinione pubblica su un tema così scottante che per aprire un dibattito serio e leale sulla questione.

Cambiano i nomi, cambiano le città ma quel che rimane invariato sono le solite invettive conclusive, a giovani e meno giovani, e alla loro scarsa volontà di sacrifici:

, , sono solo alcune delle frasi ormai tanto in voga sui media nazionali.

Stando alla cronaca scritta il lavoro ci sarebbe, e ce ne sarebbe anche tanto, ma sarebbero i disoccupati a non volersi impegnare seriamente per uscire dal perenne stato di bisogno economico.

A leggere l’ultimo report della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, l’Italia è la nazione con il minor tasso di occupazione nella fascia under 40 dell’intera Europa, con una media di appena il 32% contro quella del 41% degli altri paesi dell’Unione. Una percentuale enorme che corrisponde a più di due milioni di cittadini che non riescono a trovare un adeguato sbocco professionale.

La realtà esposta dagli imprenditori è quindi diametralmente opposta a quella indicata dalle varie ricerche di settore e se è vero che “in medio stat virtus” è opportuno cercare di approfondire, per quanto possibile, la questione.

In un mondo sempre più digitalizzato e tecnologico le capacità lavorative si fanno sempre più mirate e specializzate, anche negli impieghi che potremmo definire più semplici e che, ad oggi, richiedono competenze un tempo inimmaginabili.

Dall’industria al commercio al dettaglio, dall’artigianato al settore terziario le figure professionali vanno sempre più specializzandosi in precisi indirizzi, non sempre tra di loro intercambiabili e sostituibili.

Se un tempo bastava una infarinatura generale in un certo settore e si migliorava e imparava sul campo grazie alla formazione aziendale, oggi le stesse aziende non sono quasi più disposte ad investire per la formazione di nuove leve lavorative che si affianchino alle vecchie generazioni per poi sostituirle in un naturale e fisiologico ciclo di ingressi e di uscite dal mondo del lavoro.

Una continua ricerca di candidati, magari al primo impiego, che abbiano già tutte le competenze necessarie per svolgere questa o quell’altra mansione, tralasciando completamente un adeguato periodo formativo utile sia al lavoratore sia all’imprenditore per affinare i processi e i meccanismi di funzionamento e andamento dell’azienda.

Con una scuola sempre più martoriata da tagli e restrizioni finanziarie e che, per certi aspetti ancora punta più sulla formazione teorica che pratica dell’individuo, si è creata nel tempo una fortissima sperequazione tra chi ha i mezzi necessari per integrare il proprio bagaglio culturale e chi no.

Un divario che si fa sempre più evidente alla lettura dei dati occupazionali che quasi settimanalmente escono da questo o da quell’altro istituto di ricerca; una mancanza di competitività della quale risente l’intero sistema Paese.

Come se non bastasse, a ciò si aggiunge una contrazione esagerata del salario dovuta solo in parte alle congiunzioni astrali di geopolitica e cataclismi mondiali. Una tradizione italica ben radicata e difficile da estirpare è sempre stata quella di pagare poco, di sottopagare o comunque non retribuire in maniera proporzionata alle ore lavorative svolte.

Con un fare più che mai paternalistico si ritiene, ancora oggi, che un giovane alle prime esperienze debba, per così dire, fare la gavetta e quindi nella pratica essere sfruttato, qualunque sia il suo livello di preparazione.

Ecco proporsi quindi stipendi bassissimi, ai limiti del ridicolo, certamente insufficienti se non offensivi della propria dignità: pochi spiccioli a fronte di ore e ore regalate all’impresa.

Il lavoro che si trasforma proprio malgrado in un eterno volontariato al quale molti giovani sono praticamente obbligati, mancando in Italia un salario minimo garantito o altre forme di tutela adeguate ad arginare il fenomeno.

Il miraggio di uno stipendio, e soprattutto di uno stipendio adeguato, rimane ancorato all’anzianità di servizio più che alle reali capacità e al reale carico di lavoro svolto per questo o quell’altro imprenditore.

Situazione diametralmente opposto al di la delle Alpi e al di la dell’oceano, meta di migliaia di giovani costretti, anche per questi contorti meccanismi, ad espatriare affinché siano riconosciuti loro valore e competenze.

Ovviamente non è tutto oro quello che luccica ma è pur sempre da apprezzare che aziende storiche o neonate startup riescano ad assumere personale di tutte le età puntando più sulle capacità reali che sull’anzianità di servizio e preferendo la stabilità lavorativa che il meno impegnativo precariato eterno.

In una Italia dove il lavoro è ancora legato ai vecchi e iniqui meccanismi di selezione e dove un gran numero di giovani e giovanissimi, quelli che qualche passato Ministro definiva “choosy”, è impossibilitato ad una vera autonomia, nessuno sembra voler affrontare seriamente questo problema che diventa ogni giorno più insostenibile.

Intere generazioni faticano a crearsi una propria dimensione di vita e di speranze, obbligate sempre di più a dipendere economicamente sulle spalle di quelle passate e in attesa di quell’eterno riscatto che è ancora ben lontano dal realizzarsi.

ANTONINO IORIO