Acque chiare In primo piano

Passano i giorni (e passeranno i mesi) ma l’acqua del dibattito pubblico resta torbida. Saltiamo a piè pari il falso tema dell’acqua pubblica che si porterebbe appresso la gestione pubblica. Proprio la storia e i fatti recenti ci dimostrano che la mano pubblica non è capace di “far funzionare” il meccanismo, ad iniziare dai costi scaricati sui contribuenti.

L’Italia, in teoria, non è un paese totalitario. Le proprietà pubbliche dovrebbero essere poche ed essenziali, sempre a condizione di poter assicurare funzionalità ed economicità. Restano in piedi quasi tutte quelle ereditate dal fascismo (qualcuno ricorda che Enrico Mattei, nominato per liquidare la benzina di Stato, con un salto mortale rilanciò l’AGIP con il famoso “gatto a sei zampe fedele amico dell’uomo a quattro ruote”?) e la Repubblica se n’è inventate di nuove. Il patto fondativo della Repubblica, tra forze liberali e conservatrici aliene da statalismi, mette al riparo la proprietà privata da ogni pretesa egemonica della parte pubblica (art. 42 - La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati).

Uno statalismo utopico strisciante emerge dal letargo con improvvise fiammate acquisendo proseliti sensibili alle frasi a effetto. Nella realtà lo Stato e soprattutto le amministrazioni democratiche decentrate hanno dimostrato di non essere in grado di garantire l’efficienza, tantomeno la economicità della gestione di quei beni privati di interesse pubblico.

Quel che accade più spesso (ed è accaduto a Benevento nella vicenda dell’acqua al tetracloroetilene) è una singolare capacità di parlare lingue diverse, una idiosincrasia al dialogo franco, una paura di verità. Qui da noi è successo che un ente pubblico ha segnalato che l’acqua ad una certa sorgente era contaminata oltre ogni limite classificato. Di fronte ad un massimo tollerabile di 10, si era raggiunta una vetta di 210.

Nella Benevento bonaria del dopoguerra sarebbe bastato applicare il teorema di Gramazio per venirne fuori. Nella famiglia Gramazio svettava quell’Ernesto al quale è stata intestata la piazza di Rione Libertà dove sorgono gli uffici regionali e l’ex Provveditorato agli Studi: funzionario pubblico, professore, provveditore agli studi, ispettore del Ministero della Pubblica Istruzione, fondatore della Banca di Benevento, pubblicista eccetera…Ernesto aveva un fratello che non era andato oltre la qualifica di bidello di scuola. In tale veste, in quegli anni, in caso di temporanea assenza del docente, un bidello poteva andare in aula a “tenere buona” la classe. Il Gramazio aveva il pallino dell’insegnamento e subito esponeva il suo teorema: “Tengo diciotto cavalli, me ne muorene diciannove. Non si può”.

Ebbene ad una ipotetica riunione di varie sigle che si intendono di acque (presenti sindaco, assessori e consulenti), ai sensi del teorema di Gramazio, si sarebbe presa una saggia decisione di tenere in evidenza le carte sconcordanti, ma di effettuare seduta stante una nuova misurazione di tutti i parametri previsti dalle buone prassi. Si sarebbe evitata la drammatica propalazione di notizie atte a turbare la pace sociale, ordinando solo di tappare immediatamente Pezzapiana. Sarebbe bastata agli utenti la massa d’acqua sottratta alla diluizione del composto venefico.

Invece si è scelta la via di una figura della pattuglia acrobatica dell’Aeronautica: la “bomba”, dove i velivoli fanno manovre strane e il solista, temerario più che coraggioso, li sfida trapassandoli tra gli oh! degli spettatori. 

La virtù dell’amministratore deve essere la prudenza. In quello spettacolare annuncio di veleni in ogni goccia d’acqua sgorgante da rubinetti e scarichi di cessi, altro che un dovere d’ufficio, poteva starci un vero e proprio procurato allarme (art 658 del Codice Penale) presso l’Autorità. Nel caso di specie il Prefetto che, però, saggiamente, si è limitato ad invitare il solista ad atterrare, svestendosi della tuta acrobatica.

Fare chiarezza significa stabilire una volta per sempre che i cittadini di Benevento non meritano di fare le cavie con l’acqua di Pezzapiana. Significa altresì che l’approvvigionamento di acqua potabile non può giungere per risalita dai pozzi sub-fluviali di Solopaca, ma deve giungere per caduta da sorgenti di alta quota. Si riprenda la carta della derivazione in territorio di Altavilla Irpina dall’acquedotto del Serino dei 130 litri al secondo (buona parte della condotta è già interrata e il serbatoio è quello di Monte delle Guerdie). Chi ne vuol sapere di più si legga nel mio libro il racconto che ne fa Alfonso Tanga.

Qualche sforzo enti regionali e gestori potrebbero farlo puntando alla montagna del Taburno. Se dalla parte di Bucciano c’è la sorgente del Fizzo, non è improponibile sul versante “nostro” qualche captazione. A parlar bene del Taburno, dell’ibisco e delle api, fu un certo Virgilio. Che non era un fesso.

MARIO PEDICINI