Arginare i fiumi? In primo piano

A sentire anche personaggi che rivestono cariche nelle organizzazioni di categoria, nei giorni scorsi sia il Tammaro che il Calore avrebbero superato gli argini. Si dà il caso che i fenomeni registrati sono stati allagamenti in aperta campagna in zone pianeggianti. Si è trattato, cioè, di più che normali fenomeni naturali da classificare tra le esondazioni. E per invocare gli interventi di autorità amministrative (soprattutto regionali, con qualche leggera propensione alle provinciali) si sono evocati gli immancabili cambiamenti climatici.

In realtà, come abbiamo avuto modo di raccontare in ogni occasione simile, la storia dei fiumi di nostra competenza è ricca di eventi che si ripetono anche in tempi ravvicinati. Piogge abbondanti, soprattutto in particolari periodi degli anni quando i terreni agricoli sono privi di coltivazioni in grado di trattenere e filtrare nel suolo l’acqua e più facilmente si dilavano portando a valle insieme all’acqua anche quantitativi di terriccio e detriti alzano la portata dei corsi d’acqua. Le ramificazioni che fanno capo ai fiumi più lunghi contribuiscono all’aumento di portata di questi ultimi e per quel che ci riguarda più da vicino a turno (e qualche volta tutti insieme) il Sabato, il Tammaro e il Calore vanno in piena. Nessuno di questi fiumi è provvisto di argini, che sono interventi umani presenti solamente a protezione di zone abitate, quale le città di Benevento. La regolazione con arginature artificiali, soprattutto quelle che confidano nella forza del cemento armato, risolve parzialmente i problemi delle abitazioni urbane, ma non tiene conto quasi mai delle conseguenze nelle aree a monte e a valle. In particolare al termine dell’arginatura il fiume riversa in maniera violenta la sua portata che si è velocizzata nel tratto arginato dove il livello consentito è un potente moltiplicatore di energia e le esondazioni provocano i più evidenti inconvenienti: allagamenti più o meno violenti dei terreni adiacenti e spesso anche di caseggiati ospitati in zone agrarie a distanze non proprio di sicurezza dal corso d’acqua.

Non bisogna consultare i libri (anche se per certe categorie professionali sarebbe indispensabile) per darsi la ragione di certe toponimie. Cioè del perché a valle della confluenza del Sabato e del Calore quella zona pianeggiante si chiama Pantano e se la pianura da Ponte a San Lorenzo Maggiore si chiama Piana. Né bisogna essere viticoltori (anzi!) per notare che solo da qualche decennio sulla Piana sono sorti vigneti che lambiscono allegramente il corso del Calore. Quasi tutta quell’area non è stata mai nel passato sottratta alla sua naturale funzione di area a disposizione del fiume.

Chi se ne voglia fare una ragione potrà consultare i tanti libri scritti da studiosi locali che anche nelle scuole dovrebbero essere meglio apprezzati e fatti conoscere. Perché mai il progettista del ponte Maria Cristiana a Solopaca volle portare il manufatto a “9 metri dal pel di magra”, cioè dal livello dell’acqua in condizioni di magra, cioè estivi? Evidentemente per sottrarlo ad un prevedibile livello di piena già nel passato misurato. E perché la linea ferroviaria dei primi anni dello stato unitario, pur seguendo il corso del fiume, si è tenuta ad una quota di sicurezza, anche qui calcolata sulla base delle conoscenze storiche circa i livelli raggiunti dalle piene nei secoli? Perché l’alluvione del 2 ottobre 1949 non ha toccato i binari della ferrovia, allora costeggianti la piana di Pantano?

Fiumi e torrenti hanno le loro esigenze. Se l’uomo pensa di obbligarli a rispettare le sue nevrosi, continueremo a mandare sottacqua aziende agricole e abitazioni familiari.

Non pensiamo minimamente che si possano demolire tutte le costruzioni realizzate in zone improprie (a Benevento abbiamo realizzato nel letto del Calore, alla confluenza poi col torrentizio Tammaro, l’area industriale!), non si può intonare il lamento funebre ad ogni stagione piovosa. Nel rispetto dell’ambiente naturale è possibile assicurare le attività umane a distanze ragionevoli elevando artificialmente “cordoni” soltanto movimentando terreno sì da poterlo coprire di vegetazione ed anche di proficue coltivazioni agrarie. Niente dighe di cemento che “stringono” il fiume e ne aumentano la pericolosità con l’accelerazione delle “masse liquide”, ma predisposizione di spazi alluvionali ampi chiusi con rialzi a declivio dolce sui quali portare anche stradine e piste ciclabili ad uso degli abitanti ed anche di possibili mezzi di soccorso. Si tratta di assicurare al fiume lo spazio dove allargarsi senza rapinare il terreno (ciò che accade all’uscita dei tratti ingabbiati in arginature cementizie).

Non serve andare all’estero, anche se qualche volta sarebbe opportuno mandarci in visite di studio il personale tecnico di uffici pubblici. Basta riandare alla storia. Alla Servitù di Via Alzaia, tormento degli studenti di diritto civile. Sono quelle strade sul colmo dei rilevati naturali dei grandi fiumi da dove il proprietario doveva lasciar passare (ecco la “servitù”) carretti e animali soprattutto a servizio della igiene idraulica dei luoghi. A Pantano si può tranquillamente realizzare un reticolo di vie alzaie contenenti all’interno uno spazio utile al riempimento dolce delle portate di piena del fiume Calore. Un patto con i proprietari potrebbe consentire una vera gestione pubblico-privata con la soluzione una volta per tutte di una questione che appartiene alla natura. Che guai a presumere di poter assoggettare ai capricci umani.

MARIO PEDICINI