Cacciata da Palazzo Venezia: quell'indagine ordinata da Arturo Bocchini su Claretta Petacci In primo piano

Un intenso lavoro di ricerca e verifica, per fare emergere la verità su Claretta Petacci, è quello compiuto da Mirella Serri, collaboratrice di Rai Storia e Rai Cultura. Alla luce della larga messe delle sue lettere, dei diari e i documenti di archivio che riguardano lei e la sua famiglia, e che per lungo tempo sono stati secretati e resi inaccessibili al pubblico, oggi ne abbiamo una raffigurazione molto diversa da quella più nota e vulgata: Clara, in famiglia chiamata Claretta e il cui vero nome era Clarice, non fu una giovane cristallizzata nel bozzolo dell’amore, della gelosia e dell’ammirazione incondizionata nei confronti della sua divinità, il capo del governo.

Fu una donna cinica, crudele, sfrenata nella sua ambizione e molto intelligente, che iniziò la sua avventura a vent’anni, nell’aprile del 1932, sfruttando il rapporto erotico che il Duce provava nei suoi confronti. Già Paolo Mieli nel suo Lampi sulla storia – Intrecci tra passato e presente (Rizzoli, 2018) sottolineava come occorresse sfatare falsi miti e incongruenze di giudizio alla luce di documenti inediti e proporre visioni spesso alternative a quelle ufficiali. Ed è quello che Mirella Serri compie in Claretta l’hitleriana – Storia della donna che non morì per amore di Mussolini edito da Longanesi.

La relazione tra Claretta e il Duce ebbe avvio immediatamente e non dopo quattro anni di amicizia sentimentale come sono stati propensi a credere molti storici, tra cui Renzo De Felice che però non ebbe occasione di prender visione dell’intera mole degli scritti di Clarice pubblicati dopo la scomparsa del biografo di Mussolini. Il rapporto fu tra alti e bassi anche violento. Quando Osvaldo Sebastiani, segretario particolare del Duce, a Palazzo Venezia la mise alla porta, Claretta si strusse affidando la sua disperazione, appena rientrata a casa, a lettere vergate su carta rosa ornata dal motto «Nec tecum nec sine te vivere possum!» a fianco dell’effigie di una colomba bianca intrecciata con un’aquila nera. Lettere per Benito Mussolini che lei metteva nelle mani sicure di Quinto Navarra, cameriere personale del Duce.

L’avevano cacciata. Quali le forze, a lei sconosciute, che volevano ostacolare la sua relazione? Lui ne era al corrente? La risposta agli interrogativi che tormentavano Clarice l’aveva il prefetto e senatore Arturo Bocchini, nonché capo della polizia. Aveva studiato diritto romano all’Università Federico II di Napoli, dove si era laureato in legge nel 1902. Quattro giorni prima del 16 febbraio 1937, quando a Clara venne precluso l’accesso a Palazzo Venezia, sul tavolo di Bocchini era arrivata una cartellina color sabbia che conteneva i risultati di un’indagine da lui stesso ordinata. Appena una nuova gentildonna entrava nel raggio di azione del capo del governo, la sua vita veniva passata al setaccio. Bocchini consegnò al Duce il fascicolo contenenti i resoconti delle registrazioni telefoniche che coinvolgevano la Petacci. Claretta prendeva appuntamenti notturni. In seguito Clara riuscì nell’impresa di farsi perdonare dal suo Ben, questo il nomignolo che gli dava in privato.

Don Arturo, così lo chiamavano nel piccolo paese in provincia di Benevento dove era nato in una ricca famiglia di proprietari terrieri, era diventato capo della polizia a quarantasei anni. Era emigrato da San Giorgio la Montagna e nel 1929, stanco di essere nominato il Montanaro, fece cambiare il nome in San Giorgio del Sannio. Presto gli fu affibbiato il nomignolo di «dittatore della dittatura» o «viceduce». La morte di don Arturo si ammanta di mistero. Il decesso avvenne la notte tra il 19 e il 20 novembre 1940, ufficialmente per un ictus cerebrale, ma la famiglia accorsa da Benevento, in particolare una giovane nipote, propendevano per l’ipotesi dell’avvelenamento. Si sarebbe verificato durante il banchetto serale, quando Bocchini aveva divorato un numero veramente eccessivo di aragoste. Anche la modalità della morte di Clarice Petacci è stata oggetto di controversie. La versione conosciuta dai più è quella cinematografica del film di Carlo Lizzani del 1974, a soli 29 anni dagli accadimenti. Con Clarice che si getta col suo corpo a protezione del Duce rimanendone uccisa.

No, Clara fu uccisa in quanto collaborazionista di Hitler nel momento più tragico della storia d’Italia, quando i nazisti davano una caccia spietata agli antifascisti e agli ebrei. Era stata la dominatrice di Salò al servizio delle bandiere con la svastica, al fianco di Mussolini nella persecuzione razziale, nel sostegno alla guerra, nell’indebita appropriazione di ciò che non le apparteneva. Non era stata solo una donna innamorata. «Tu sei odiata al pari di me e forse più di me. Io non ti ho mai parlato delle lettere anonime che ricevo e che vengono da ogni parte, specie da quando sei qui e la cosa è oramai nota in tutta Italia. Fatti dimenticare…». Con questo avvertimento Benito Mussolini alla fine del 1943 metteva in guardia Claretta Petacci dopo che anche lei era approdata nella Repubblica sociale italiana. Scrive Mirella Serri: «L’esecuzione del capo del governo della Rsi e della sua amante fu comunque esecrabile: il Duce avrebbe avuto diritto a essere giudicato da un tribunale e a essere condannato da una sua Norimberga. E ne avrebbe avuto diritto anche Claretta Petacci.

Insieme alla commozione e alla pietà che ispira la vicenda terminata a Milano, in piazzale Loreto, con il corpo di Claretta esposto in modo indegno, una corretta interpretazione delle scelte della Petacci svelenisce l’odio, allontana la compassione nei confronti del fascismo martire e ridà dignità all’operato degli antifascisti. L’immagine di Clara vittima innocente rappresenta il pregiudizio degli storici sul destino femminile ma anche il permanere di un sentimento di attenuazione delle responsabilità del fascismo. Bisogna restituire a Clara la sua vera identità di condannata a morte dai partigiani in quanto spia e avventuriera al servizio di Hitler». Lo storico Marc Bloch, ricordato per aver introdotto il concetto di analisi storica contrapposta alla semplice descrizione, asserisce che l’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato.

GIANCARLO SCARAMUZZO

giancarloscaramuzzo@libero.it