Dal distanziamento sociale al distanziamento mentale In primo piano

Il 2020 è l’annus horribilis che ci ha stravolto la vita.

Oggi gli incontri si chiamano assembramenti, si parla solo a distanza o mascherati, l’abbraccio è virtuale, il bacio è ideale. Quelli fisici sono sanzionati, a seconda della gravità, con il cartellino giallo, il rosso diretto, il daspo temporaneo (la quarantena).

Noi italiani, da sempre espansivi ed affettuosi (specialmente i meridionali), soffriamo per questa vita contro natura, che ci impone usanze di stampo anglosassone. Oramai siamo divenuti quasi british, distaccati e compassati.

Nell’impiego pubblico si lavora solo in smart working, cioè poco o niente; da casa e da remoto, come il passato e senza il futuro (prossimo).

Hanno riaperto i ristoranti, i lidi marini e, tra poco, anche le discoteche, ma gli uffici restano ancora chiusi o semiaperti, come quegli imbuti che la ministra Azzolina voleva riempire. Occorre prenotarsi, tramite mail, pec o telefono, nella speranza di trovare qualche anima pia che risponda e ci consenta un limitato accesso per sbrigare le incombenze (prima) quotidiane.

Anche adesso che l’epidemia di Covid-19 è da qualche mese sotto controllo, si continua a paralizzare qualsiasi attività abbia a che fare con l’amministrazione pubblica.

Io che ho la sfortuna di svolgere da qualche decennio la professione di avvocato non posso entrare nel Tribunale della mia città, da oltre quattro mesi, se non preventivamente autorizzato con comunicazione scritta degli uffici; da marzo le udienze civili si svolgono senza la presenza fisica dei difensori, in modalità scritta o, tutt’al più, con il collegamento telematico.

La confusione regna sovrana, al pari dell’anarchia, essendo stata rimessa ogni decisione in merito alle modalità di svolgimento delle udienze ai vertici degli uffici giudiziari. Idea brillante partorita dagli esperti del Ministero di (dis)Grazia e (in)Giustizia.

Si è creata così una vera e propria Torre di Babele, con gli uffici giudiziari che parlano lingue diverse e fra loro incomprensibili.

La cosa simpatica è che si è detto che da luglio l’attività giudiziaria si sarebbe avviata verso la normalizzazione, cioè proprio nel mese in cui la stessa volge sempre al “desìo” (in quanto è sospesa per legge, ogni anno, dal 1° al 31 agosto).

Ho pensato: vabbè, accontentiamoci. Il momento è straordinario, non è il caso di sparare sulla croce rossa.

In verità, qualche timido segnale si è visto. Infatti, la Corte di Appello di Napoli ha ripreso a fissare le udienze civili con la presenza fisica dei difensori, seppure con le limitazioni imposte dal protocollo anticovid. Lo stesso ha fatto il Tribunale di Torino (cioè, della città capoluogo di una regione duramente colpita dall’epidemia).

Preoccupa la ripresa dopo la pausa estiva, perché - potete starne certi - da settembre ricomincerà la litania dei virologi sulla seconda ondata di Covid-19 e l’unica idea brillante che gli esperti del Ministero di (dis)Grazia e (in)Giustizia riusciranno a partorire sarà quella di … richiudere gli uffici giudiziari, anche se in via temporanea.

Poiché in Italia non vi è niente di più definitivo del provvisorio, non vorrei che siffatto modus operandi da straordinario diventi ordinario nel silenzio assordante degli avvocati, oramai ridotti a controfigure di se stessi.

La buona notizia è che il Governo, dopo avere inondato di miliardi di euro il paese, ha deciso di semplificarci la vita con … il decreto semplificazioni (“Basta la parola!” diceva una nota réclame degli anni 60 di un … confetto lassativo). In parole povere: se va bene, creando ulteriori incomprensibili complicazioni.

Oramai siamo passati dal distanziamento sociale al distanziamento mentale.

Spero solo che non sia un punto di non ritorno.

UGO CAMPESE