Dall'Avvocato Malinconico al malinconico Avvocato In primo piano
E’ da poco terminata la serie “Vincenzo Malinconico, avvocato d’insuccesso”, trasposizione televisiva dei romanzi di Diego De Silva, con brillante protagonista Massimo Gallo, un cast d’eccezione, fra cui Michele Placido e Lina Sastri, ambientato nell’affascinante Salerno.
L’Avvocato Vincenzo Malinconico non è un top legal ma più l’incarnazione de “il paglietta” napoletano, che, con incoscienza e filosofia, cerca di barcamenarsi fra il disordinato svolgimento della professione e la sua confusa vita famigliare ed affettiva.
Sempre con la cartella scartellata sotto braccio, ricorda un po' gli avvocati di strada americani ma con il cuore, lo spirito ed una vivacità tutta campana.
Svogliato, impacciato, istrionico, immerso nella risoluzione di piccoli casi di quotidiana miseria umana, è un infantile pasticcione, generoso e per nulla interessato al danaro.
Insomma, una simpatica maschera che, con disinvoltura, si muove in un mondo di maschere sul palcoscenico di una città fantastica, colorata e colorita dalla fantasia del suo autore.
Per scherzo potrei contrapporgli il mio Mascambruno, Avvocato di provincia avvolto nella nebbia di Benevento, del racconto “Aspettando Natale. La giornata dell’Avvocato Mascambruno”. Un po' dandy, sonnacchioso e con la testa sempre tra le nuvole.
Purtroppo, come spesso accade, la realtà supera ogni fantasia ed è meno poetica.
Così dall’“Avvocato Malinconico” il pensiero è volato, non per un semplice gioco di parole, al malinconico Avvocato che ricorda quando la giustizia funzionava meno peggio di oggi (dell’“era meglio quando era peggio”).
All’epoca dei massimari cartacei, delle prime macchine da scrivere elettroniche e dei fax, timidi precursori dei computers, di internet e delle banche dati on line; cioè di quella rivoluzione copernicana che ha cambiato il volto alla professione forense ed alla giustizia civile.
All’epoca in cui nelle sentenze si trovava l’esposizione del fatto e la motivazione del diritto, invece che della concisa esposizione del fatto (di solito un telegramma) e motivazione secondo la ragione più liquida (insomma, una motivazione ... quasi diuretica), che in parole povere significa che il giudice sceglie l’argomento (da lui ritenuto) prevalente sul quale fondare la decisione ed ignora gli altri motivi sollevati dalle parti.
Così, di solito, la sentenza diventa un Bignami da leggere presupponendo già di conoscere il fatto e, spesso, anche il diritto della quaestio controversa.
Paradossalmente l’evoluzione tecnologica, che avrebbe dovuto incrementare il numero delle decisioni e sfoltire l’arretrato, non soltanto non ha portato al miglioramento quantitativo ma, per l’uso e l’abuso del “copia e incolla”, alla preoccupante involuzione qualitativa.
Si assiste, così, ad estemporanei provvedimenti giudiziari nei quali: il figlio maschio affidato al padre diventa figlia femmina affidata alla madre (più parità di genere di questa); le parti decedute, nonostante la dichiarazione dell’evento interruttivo, vengono onerate dal giudice del deposito delle memorie difensive (condannate, quindi, al processo eterno); le parti costituite vengono dichiarate contumaci, cioè, scompaiono dal processo nel quale erano presenti da anni (nemmeno il mago Forrest riuscirebbe in questo gioco di prestigio).
Insomma, un inesauribile scrigno dal quale attingere per futuri racconti del mio Avvocato Mascambruno, che, a differenza del collega Malinconico, può riempirne le pagine con le ordinarie storie di straordinaria superficialità tratte dalla quotidiana realtà giudiziaria.
Non è detto che non ci pensi.
Sarebbe un modo ironico per affrontare, con disincantato ed amaro sorriso, la mediocrità della giustizia italiana.
Un monito ai cittadini per leggere la scritta “La giustizia è amministrata in nome del popolo italiano”, che campeggia nelle aule dei nostri Tribunali, come “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” in un Inferno che nemmeno Dante sarebbe riuscito ad immaginare.
UGO CAMPESE