Democrazia limitata In primo piano

Se ci fossero ancora gli strilloni, li sentiremmo echeggiare il credo più a buon mercato:

Grande rispetto per la Costituzione! La Costituzione non si tocca!

Ma quando mai.

La Costituzione è stata fin da subito aggirata proprio in materia elettorale, cioè sullo spazio che l’elettore deve avere per contribuire alla costituzione degli istituti fondamentali della democrazia rappresentativa: Parlamento, consigli comunali e provinciali (poi anche regionali).

La Costituzione del 1948, per Camera dei Deputati e Senato della Repubblica, prevedeva una diversa durata delle due assemblee (cinque anni per la Camera, sei anni per il Senato) con due distinti sistemi elettorali: quasi-proporzionale per la Camera e quasi-maggioritario per il Senato.

La Costituzione fu tradita nella culla. Già nel 1953, venuti a scadenza i deputati, si ritenne di poter-dover sciogliere anzitempo il Senato e “allineare” la cadenza elettorale. Primo tradimento della Costituzione rimasta in vigore ma aggirata con il trucco dello scioglimento anticipato del Senato. Fino alla “regolarizzazione” avvenuta con la legge costituzionale n. 2 del 1963 che mise insieme Camera e Senato, primo mattoncino per eliminare le diversità. Si fece riferimento alla formula del “bicameralismo perfetto”.

Anche per l’elettorato la Costituzione del 1948 faceva delle differenze. L’elettorato per la Camera è formato da tutti gli iscritti nelle liste elettorali, cioè maggiorenni (anni 21) maschi e femmine. Per il Senato, può votare chi abbia superato il venticinquesimo anno di età. Anche circa l’elettorato passivo (cioè chi diventa senatore o deputato) era differenziato. Poteva candidarsi al Senato chi avesse 40 anni: Nella Camera alta non potevano arrivare sbarbatelli. Pure per i deputati, la candidatura era possibile a chi avesse almeno 25 anni.

Adesso, fermo restando il limite di età in ingresso per gli eletti (25 anni per i deputati, 40 anni per i senatori) l’esercizio del voto è stato concesso a tutti gli aventi la “maggiore età”, cioè 18 anni, anche per gli elettori del Senato (legge costituzionale 18 ottobre 2021, n.1).

Le elezioni politiche esigevano la partecipazione popolare alla “cerimonia” del voto. Se per il Senato c’era il collegio uninominale (si votava il partito e automaticamente il voto andava all’unico candidato di quel partito), per la Camera dei Deputati l’elettore poteva indicare un partito e individuare i nomi di più candidati. Presto per i partiti maggiori si instaurò la prassi secondo cui il capolista veniva votato da tutti, restando in atto la libertà di scrivere il cognome di altri candidati (abitualmente tre). L’elettore era orgoglioso di sentirsi protagonista di un evento nuovo: così si affermava la democrazia, il comando del popolo.

Mentre si proclamava ad ogni pié sospinto la libertà dell’elettore, a qualcuno venne il dubbio che un cafone qualsiasi potesse determinare la scelta di un deputato. La Costituzione continua a dire “La sovranità appartiene al popolo” ma i partiti per primi se ne fecero un baffo: si erano burocratizzati, i congressi diventavano delle sceneggiate e tutto finiva all’unanimità. La democrazia delle sezioni e dei congressi provinciali era stata sepolta. Si volle dare la colpa della corruzione ai giochi sporchi delle preferenze, Mario Segni - figlio dell’ex presidente della Repubblica - sponsorizzato dai giornali progressisti (all’epoca ancora potenti) divenne famoso per aver ridotto a una sola la preferenza nella elezione dei deputati. Erano i primi anni ’90, l’Italia stava per imbarcarsi in una delle crisi più drammatiche della storia repubblicana.

Con la scusa di eliminare la corruzione elettorale, gli azzeccagarbugli dei nuovi movimenti politici ebbero il campo libero per far approvare in parlamento nuove leggi elettorali costruite su misura. Si partì dalla preferenza unica del 1992, per passare a sistemi misti (tanti seggi col maggioritario e tanti col proporzionale), fino al “sistema elettorale” con il quale andremo a votare il 25 settembre: l’elettore deve mettere solo una crocetta, i candidati sono già schierati nell’ordine deciso dalle preferenze del capopartito, ordine che l’elettore non può modificare.

Non ci vuole molto a capire da dove nasce la diserzione degli elettori. Proprio quando i partiti non esistono più e lo stesso termine di “partito” è introvabile nel calderone di simboli, si vorrebbe fare appello alla “maturità” degli elettori per invitarli ad una inutile liturgia. Qualcuno, volendo mantenere un linguaggio pulito, ha scritto di “democrazia limitata”. Da limitata a “scomparsa” il passo non è lungo.

MARIO PEDICINI