Desertificazione demografica, poche nascite molte fughe In primo piano

I dati pubblicati dall’ANSA qualche settimana fa mi fornisce la possibilità di proporre all’attenzione dei tanti, un argomento sempre vivo nel nostro territorio.

Le regioni del Mezzogiorno continuano a perdere risorse qualificate.

Negli ultimi dieci anni sono stati circa 1 milione 140mila i movimenti in uscita dal Sud e dalle Isole verso il Centro-nord.

Volendo andare a ritroso, sappiamo che nel periodo post-unitario si sono registrati 5 milioni di emigrati all’estero. All’inizio del 1900 e fino al 1915, 9 milioni di espatri (la grande emigrazione con 600.000 l’anno). Tra le due guerre (1920-1940) 3 milioni e mezzo e nel dopoguerra (1945-1970) 7 milioni di espatri ed inizio anche dell’emigrazione interna.

E a proposito di quest’ultima, il fenomeno, però, che fa riflettere è il dato dei cambi di residenza: nel 2016, dopo tre anni di calo, sono tornati a crescere ed hanno coinvolto 1.331.000 individui.

Dal Rapporto Migrantes, tra il 2008 ed il 2015, più di 380.000 italiani si sono trasferiti da una regione del Sud al Centro-Nord.

Si tratta di lavoratori qualificati che vedono nella fuga dal Mezzogiorno la via migliore per guadagnare di più. Non si tratta più di poveri contadini, ma spesso di laureati di famiglie borghesi; non più con le valigie di cartone, bensì con il laptop. Comunque sempre di immigrazione interna si tratta.

L’età media degli emigrati è di 33 anni per gli uomini e 30 per le donne. Un emigrato su cinque ha meno di 20 anni, due su tre hanno un’età compresa tra i 20 e i 49 anni mentre la quota di ultracinquantenni è pari al 13%. Considerando il livello di istruzione posseduto al momento della partenza, nel 2019 un italiano emigrato su quattro è in possesso almeno del titolo di laurea (30mila).

Le nuove stime Istat sugli indicatori demografici affermano che l’Italia è prima in Europa per invecchiamento della popolazione: al 1/1/2017 gli over 65 erano il 22%, cioè 13 milioni e mezzo.

Sempre secondo le stime Istat, nel 2045 la popolazione residente in Italia sarà pari a 58,6 milioni e nel 2065 a 53,7 milioni e, quindi, perderà in 49 anni (rispetto al 2016:60,6 milioni) circa 7 milioni di abitanti.

L’età media passerà dagli attuali 44,7 a oltre 50 anni del 2065.

Il quotidiano del Sud” ha pubblicato un articolo in cui si afferma che, secondo l’Istat e Eurostat, di questo passo, nel 2048 i decessi potrebbero doppiare le nascite e, ancora, entro il 2040 una famiglia su quattro sarà composta da una coppia più un figlio, mentre, una su cinque non avrà figli.

Da uno studio del Cnr del 2020 i ricercatori dell’Istituto di studi sul Mediterraneo, risulta che l’emigrazione dalla Campania è una costante della mobilità in Italia. Anche modificando nel corso del tempo destinazioni, modalità e forme, essa rappresenta ancora oggi il flusso regionale più consistente e stratificato.

Le città verso cui sono diretti sono Roma (11.669) e Milano (80.743) e risultano trasferiti tra il 1996 ed il 2017. Il flusso migratorio, nel ventennio, è stato di circa 806.000 persone, furono 835.687 nel periodo 1955-1975 nel periodo del boom economico e delle grandi emigrazioni!

Dalla prima metà degli anni cinquanta agli anni settanta si è registrata una importante fase di partenze, soprattutto dalle province di Benevento ed Avellino.

In uno studio nazionale dell’Università Cà Foscari di Venezia, è stato evidenziato un aumento del protagonismo femminile nel movimento migratorio attuale ed è stato registrato che circa il 60% degli emigrati all’estero comprendeva la fascia di età tra i 20 e i 45 anni. Altra discontinuità con l’emigrazione storica è la provenienza urbana degli emigranti.

L’ultimo movimento migratorio, ancora in atto quindi, si manifesta attraverso una diversa composizione sociale, una maggiore partecipazione delle donne, un più alto livello di scolarizzazione ed una provenienza urbana e non più rurale.

Nello studio viene sottolineato anche il desiderio, per chi si reca all’estero, di andare via dall’Italia perché spinto da un contesto culturale e politico asfissiante che non fa vedere un orizzonte di speranze.

Gli avvenimenti degli ultimi vent’anni, grandi scandali, corruzione, malaffare, inquinamento, ideologia improntata sulla competizione, apparenza, successo finanziario, trionfo dell’individualismo, sessismo e sopraffazione sono decisivi nell’assunzione di tali decisioni.

Altro motivazione è la grave immobilità economica e sociale che non permette la realizzazione individuale specie per i giovani delle classi meno abbienti.

Le migrazioni interne, invece, presentano alcune caratteristiche nuove. Le cause sono da ricercare nelle disuguaglianze territoriali e persistenti e nei crescenti divari salariali.

Il divario retributivo, a parità di mansioni, che si continua a registrare in Italia tra Nord e Sud del Paese viene confermata da un'analisi realizzata da Applavoro.it: tra Nord e Sud il gap retributivo è di circa il 20%.

Analizzando la retribuzione media degli operai generici, si riscontra che nelle città del Nord (Firenze Milano e Torino), la paga media è superiore del 22% rispetto alle città del Sud (Cagliari, Palermo e persino Roma).

Per quanto riguarda gli impiegati amministrativi, invece, la differenza tra Nord e Sud risulta del 40,58 % a sfavore dei lavoratori meridionali.

La novità maggiore, comunque, consiste nel fatto che i costi materiali effettivi che deve oggi affrontare chi emigra al Nord per il maggior livello del costo della vita e quindi il sostegno economico, è sostenuto dalla famiglia d’origine, almeno per i primi anni.

Occorre dunque sottolineare un fatto eclatante: le rimesse di questi emigranti non ci sono più, anzi, sono loro che ricevono da casa. Si registra un flusso di rimesse alla “rovescia” con le famiglie che inviano denaro dal Sud ai loro figli al Nord e occupati con salari modesti.

Questi sono i nuovi emigranti dal Sud al Nord. Non sono solo ingegneri e donne magistrato, che pure ci sono, ma non sono la maggioranza. I nuovi emigranti sono anche i pendolari a lunga distanza oppure giovani occupati a tempo determinato per brevi periodi.

Le cause, dunque, restano le diseguaglianze crescenti tra Nord e Sud, la desertificazione industriale del Mezzogiorno, la conseguente disoccupazione e gli elevati divari salariali tra le aree geografiche.

Tutti questi fenomeni concorrono ad una modificazione radicale della struttura demografica che ha notevoli implicazioni sociali.

E’veramente stucchevole che in tempi normali, per un Paese avanzato come l’Italia si debba parlare di emigrazione, di fuga di cervelli e, non invece, di una fisiologica circolazione di persone.

Rivolgendo, in particolare, l’attenzione al nostro territorio si può vedere come la Campania al 31 dicembre 2020 fa registrare 5.624.260 residenti, rispetto al 2019 una riduzione di 87.883 unità.

La provincia di Benevento, 128,2 abitanti per km quadrato, fa registrare in termini percentuali dal 2019 al 2020, un meno 2,1%. Meno 5.602 unità in valore assoluto! Come se l’intero paese di Apice ed altre 180 persone, andasse via contemporaneamente!

Cifre che devono far riflettere e che se vengono approfondite fanno tremare i polsi. I dati affermano che 1.000 sanniti, per lo più giovani, lasciano in media ogni anno la propria terra. Sempre secondo l’Istat dal 2011 oltre 5.000 abitanti sono andati via.

Tra le cinque province campane, Benevento risulta essere al quinto posto per numero di stranieri; al primo per tasso di mortalità; al quarto per tasso di natalità; al quarto per tasso di crescita ed al primo per età media ed indice di vecchiaia. Tutti dati negativi!

La stessa provincia, dall’unità nazionale, ha registrato il massimo dei residenti nel 1951 con 333.203 e subito dopo è iniziato il declino, ad eccezione del 1991. A mano a mano sempre di meno.

Ora considerando che i censimenti si sono registrati puntualmente ogni dieci anni a partire dal 1861, ad eccezione del 1891 e del 1941 e che dal 2018 sono stati sostituiti dai Censimenti permanente della popolazione con cadenza annuale, possiamo elaborare alcuni dati interessanti.

Gli abitanti della Provincia sannita, nel suo anno di nascita, il 1861, erano 221.426 unità. Nel 2022 risultano essere circa 276.000 abitanti, come nel 1921!

La città capoluogo nello stesso anno (1861) contava 19.222 abitanti, al 1 gennaio del 2021 ne conta 57.500, quasi quanti nel 1961 (55.381), cioè un passo indietro di sessant’anni!

Il numero massimo di abitanti in città è stato raggiunto nel 2011 con 61.489 unità

Il beneventano come l’avellinese si spopola storicamente tra il 1951 ed il 2019, fenomeno che si interrompe solo tra il 1981 ed il 1991.

Nello stesso periodo la provincia sannita ha visto ridurre i suoi residenti di 61.000 unità rispetto al 1951 e di 13.000 rispetto al 2011.

Tra il 1951 ed il 2019 in provincia di Benevento solo Telese Terme fa registrare una crescita della popolazione. Sono venti, invece, i comuni della stessa che ne fanno registrare un calo.

Volendo sottolineare alcune curiosità possiamo dire che Campoli del Monte Taburno al censimento del 2019 fa registrare il maggior incremento di residenti stranieri rispetto al 2011, mentre, Castelvetere in Valfortore risulta essere il comune più vecchio con un’età media di 56,4.

La desertificazione del Mezzogiorno e l’emigrazione interna, infine, producono complicanze non solo sociali ma anche, se non soprattutto, economiche. Se consideriamo la distribuzione della popolazione della provincia di Benevento nel 2021 e la suddividiamo per fasce d’età notiamo che il 16,7% ha un’età compresa da 0 a 19 anni,11,30% ha un’età compresa tra 20 e 29 anni, il 25,20% tra i 30 ed i 49, il 22,70% tra i 50 ed i 65 anni e, infine, il 23,3% superiore ai 65 anni. Abbiamo visto, in precedenza, che ad emigrare sono i giovani e, soprattutto, quelli con un titolo di studio e, allora, proviamo a porci alcune domande e a fare due calcoli: quanto costa un alunno allo Stato? Mediamente, secondo l’Ocse uno studente costa allo Stato italiano €8.200 tenendo conto che per gli universitari la spesa è maggiore. Secondo i nostri calcoli le cifre sono leggermente diverse ma il risultato non è molto differente. Considerando un articolo apparso sul Sole 24ore nell’aprile 2020, fonte Miur, si spendono € 5.278 per ogni bambino della scuola dell’infanzia, € 5.500 per l’elementare, € 6.000 per quella di primo grado e 11.500 per quella di secondo grado. Per un corso universitario completo mediamente, invece, tra €5.200/6.000. Per far laureare un medico €24.800 per i sei anni del corso e per specializzarlo, addirittura € 128.000.

E quanto costa far laureare un figlio alla famiglia?

Mediamente occorre spendere mediamente €1.000 l’anno per le tasse universitarie con un leggero risparmio per le facoltà umanistiche e aggiungere altri €10.000 per il fitto e mantenimento.

Lo Stato, dunque, spende per la formazione di un giovane laureato circa €163.000 (per il medico spende di più), a cui vanno aggiunti altri € 53.000 circa per le altre spese. In una, oltre €200.000

Quando questi dati vengono generati da un territorio (Benevento) in cui, secondo l’elaborazione Urbistat di dati Istat, il reddito pro-capite è di €15.332, rispetto a quello Italia, di €26.680, si può capire il sacrificio economico a cui si sottopongono le famiglie sannite che vogliono investire sui propri figli.

Alla fine, invece, quando il giovane è in grado di produrre ricchezza, è la regione in cui si è trasferito che beneficia del PIL e, per restare a livello di indagine statistica, un laureato in Italia, secondo l’Osservatorio JobPricing che analizza il mercato del lavoro e delle dinamiche retributive in Italia, nel 2020 ha contribuito in media per 39.881 euro lordi l'anno, il 34% in più rispetto a chi ha solo il diploma superiore ed il 45% in più rispetto al reddito medio di un non laureato in generale. Sempre secondo lo stesso Osservatorio e sempre nello stesso anno, la retribuzione media degli italiani ha fatto registrare una Ral media di circa 29.000 euro per i lavoratori dipendenti.

Tra gli innumerevoli dati negativi, infine, è possibile e ci piace soffermarci anche su qualcuno positivo. Come quello, ad esempio, che individua la provincia sannita, tra quelle (con AV e SA) con maggiore presenza di persone con titolo di studio più alto. Il 14% dei residenti, infatti, ha un titolo terziario o superiore di cui il 10% terziario di secondo livello (qualsiasi tipo di istruzione che una persona consegue dopo aver completato l'istruzione secondaria che non sia la laurea).

Benevento fa registrare anche il 36% di persone con diploma di scuola secondaria o di qualifica professionale e il dato è maggiore della media regionale (33,4%)

Presenta, ancora, una percentuale di occupazione maschile del 49,3%, mentre quella femminile è del 31,2%.

Il suo tasso di disoccupazione, infine, è il più basso della regione: il 15,4% femminile e il 13,5% maschile.

L’auspicio finale, per concludere, è di sperare, meglio sarebbe dire cercare, di invertire la rotta!

ANTONIO D’ARGENIO