''Dialoghi sulla giustizia'': ''del giudicare'' ovvero ''della necessaria disumanità del giudizio penale'' In primo piano
In una cornice oramai inusuale, una libreria, la “Libreria Ubik”, circondati da una moltitudine di libri che aspettano di essere letti (oggi purtroppo molti, troppi, leggono … i titoli dei post su facebook), il 12 giugno scorso si è svolto il primo incontro dell’effervescente iniziativa nata dall’idea del brillantissimo collega Matteo De Longis, supportata dall’entusiasmo dell’eclettico amico Natale Cutispoto, uno che di libri se ne intende, non solo per essere il nostro agente Giuffrè.
Non si è trattato della solita conferenza autoreferenziale, in cui ci si parla addosso perché alla fine tutto resti gattopardescamente com’è, ma di un approccio diverso e dissacrante sulla pena dello ius dicere visto da un avvocato, Andrea De Longis, da un magistrato, Sergio Pezza, e da un filosofo, Amerigo Ciervo.
Uno dei punti di forza dell’incontro è che esso nasce dal “libero arbitrio” dei partecipanti, senza nessun cappello esterno, come il rilascio di crediti formativi con accreditamento presso il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Benevento (“Non si rilasciano crediti formativi né attestati; in compenso, ci sono tanti libri e del buon vino”).
Insomma, il pubblico che ha partecipato non è stato mosso, nemmeno in piccola parte, da altre esigenze. Quindi, una partecipazione libera, consapevole, attiva; non passiva o indotta dall’obbligo dei crediti formativi.
La tela sulla quale dipanare la discussione è stata tracciata dal buon Matteo sulla riflessione del filosofo Anassimandro: “di dove gli esseri hanno origine, lì hanno anche dissoluzione secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”.
Su questo leit motiv si sono confrontate, incontrate e scontrate le opinioni dei tre relatori.
Il filosofo, il quale afferma di essere mosso dalla molla di domande che spesso non trovano risposte. Domande che, però, stimolano il cittadino a riappropriarsi della coscienza critica, della partecipazione alla polis in tutte le sue declinazioni. A non abbandonarsi al tecnicismo esasperato, ma a coltivare lo studio della filosofia come chiave di lettura della realtà.
L’avvocato, il quale ha esaltato l’individualismo dell’uomo, il quale nasce e muore solo (mi ha ricordato la grande Yuorcenar), ed è “costretto” a vivere in comunità, a rispettare quelle regole che finiscono per costituire una violenza del suo essere. Quindi, l’uomo è refrattario a qualsiasi regola e subisce il giudizio penale come imposizione. Visione molto esasperata, affascinante ma assolutamente anarchica, perché è proprio la natura ad imporre le regole per la sopravvivenza.
Il giudice, che al contrario vede nella comunità la salvezza ed il rifugio dell’uomo, il quale è un essere sociale, a partire dalla famiglia, caposaldo della società. In questo contesto le regole di convivenza sono necessarie e costituiscono la stella polare alla quale l’umanità deve sempre tendere lo sguardo.
Specialmente in questo difficilissimo momento in cui vi è un forte decadimento dei capisaldi della nostra società (la famiglia, la scuola, la giustizia, la politica) ed il proliferare di conflitti che rischiano di allargarsi e trascinarci in un nuovo conflitto mondiale.
L’incontro si è chiuso con un vero coup de théâtre allorquando Matteo ha presentato i suoi cinque giuristi chiamandoli al microfono.
Cinque studenti della scuola elementare del collegio De La Salle ai quali Matteo ha tenuto un corso relativo alla materia penale ed al processo penale. Nonostante il loro intervento non fosse preventivato non si sono fatti cogliere impreparati e, con fare spigliato e diretto, hanno esposto al pubblico in sala quello che loro hanno appreso.
Confesso che è stato il momento che mi ha commosso e coinvolto di più.
I bambini, con la loro spontaneità, ancora una volta hanno insegnato a noi adulti di comprendere meglio di noi l’essenza del diritto e delle sue regole.
Di essere spugne che sanno assorbire, se si trova il tasto giusto per solleticarne la curiosità. Di vedere, per dirla alla Calamandrei, il processo come un gioco del quale diventare protagonisti.
Questo incontro mi ha lasciato due cose:
La prima, è che anche in mondo proiettato verso l’intelligenza artificiale la riflessione ed il confronto, sotto il profilo umanistico e filosofico, costituiscono ancora le lenti con cui il giurista può leggere la realtà ed affrontare il processo ed il giudice può ius dicere.
La seconda è l’enorme speranza che mi ha suscitato la lezione di questi cinque piccoli giuristi, specialmente se il tesoro di questa esperienza verrà esteso sempre di più.
Riflessione e speranza; e, credetemi, non è poco.
UGO CAMPESE