Due secoli fa Benevento era la città delle acque, oggi è una città idropolemica In primo piano

Abbiamo chiuso l’anno 2022 ed abbiamo aperto il 2023 assistendo a contrasti e tensioni tra diversi sindaci, oltre che a divergenze, tra alcuni di essi ed il governatore regionale De Luca, sulla gestione dell’acqua potabile in provincia di Benevento. Discordanze sul modello del sistema idrico sannita: intercomunale, pubblico o parapubblico, regionale o provinciale; come se non bastassero tutte le polemiche sulla qualità dell’acqua distribuita in buona parte della città capoluogo.

Siamo non tanto una provincia idroproduttiva, vista l'immensa raccolta nell’invaso di Morcone- Campolattaro, ma ormai una provincia idropolemica,date le dispute degli ultimi tempi.

Mentre siamo turbati da questi litigi qualcuno potrebbe tentare di consolarci ricordandoci che la geografia e la storia del Sannio, e della città di Benevento in particolare, sono state segnate, in positivo ed in negativo, dal potere dell’acqua e del patrimonio idrogeologico.

Vi è una letteratura degli ultimi due secoli a documentarlo. Uno degli ultimi testi è quello pubblicato nel 2009 dalla prof. Rossella Del Prete, con il titolo “La città e i suoi fiumi”, in cui tra l’altro viene evidenziato il ruolo delle acque al “servizio della protoindustria beneventana”.

Soprattutto nel corso del XVIII secolo la principale attività produttiva di Benevento era appunto la macinatura del grano, che veniva eseguita nei sette mulini ad acqua situati nella città pontificia tra le rive dei due fiumi Calore e Sabato, al servizio soprattutto delle produzioni cerealicole pugliesi destinate all’area napoletana.

All’epoca del Cardinale Orsini fu stipulato un formale accordo tra lo Stato Pontificio ed il Regno di Napoli per regolamentare il passaggio nel territorio beneventano dei carri di grano provenienti dal tavoliere di Puglia e diretti a Napoli.

Fu sancito l’obbligo di trasformare il grano in farina nei mulini di Benevento per almeno la metà di quello che dalla Puglia era dirottato a Napoli. La città pontificia diventava così una specie di Canale di Suez o di Stretto di Gibilterra, cioè non un porto di gratuito attraversamento.

L’acqua dei principali fiumi sanniti costituiva un’importante fonte di reddito e di attività protoindustriale. Oggi abbiamo le dighe - ma soltanto una sul Fortore ed una sul Tammaro - che indubbiamente rappresentano una importante forma di difesa, ma hanno anche la potenzialità non solo di contenere ma anche di rendere produttiva la risorsa idrica.

Difatti sul fiume Fortore l’acqua è diventata una importante fonte produttiva per le imprese agricole del Tavoliere di Puglia. Ho più volte scritto che “le acque del povero Fortore alimentano l’agricoltura del ricco Tavoliere”. Il Fortore dona e il Tavoliere incassa gratuitamente.

Lo stesso destino potrebbe capitare al Tammaro se non si procedesse sollecitamente nel definire un piano di gestione organica dell’acqua raccolta dalla diga di Campolattaro, che stabilisca in maniera inequivocabile il ruolo del bacino del Tammaro, che non sia però dello stesso tipo di quello lasciato al bacino del Fortore.

Il trattato tra lo Stato Pontificio e il Regno di Napoli, per la gestione dei mulini ad acqua nell’area di Benevento di due secoli fa, potrebbe essere di insegnamento ai governanti di oggi.

Quel trattato consentì alla città pontificia di impiegare l’acqua dei fiumi al servizio della protoindustria beneventana.

Oggi non tutti concordano che il bene-comune acqua abbia bisogno di una gestione pubblica.

Ed è solo problema di sistema gestionale o anche di soggetto gestore?

Una documentata riflessione in merito si può trovare nell’ultimo libro di Jeremy Rifkin, “L’età della resilienza”, che non risparmia riserve alle imprese private che gestiscono i patrimoni idraulici: “le compagnie idriche multinazionali rispondono primariamente ai loro azionisti, non alle persone che servono.” Ha ragione Rifkin?

ROBERTO COSTANZO