La variante inglese. Appunti in tema di Coronavirus In primo piano

Un anno e mezzo di pratica quasi ininterrotta ci ha insegnato, oramai, a convivere con la pandemia da Coronavirus.

Ci siamo abituati a mettere in campo piccole pratiche quotidiane di difesa, nonostante la schizofrenica comunicazione politico-sanitaria, – che ci ha tolto la speranza ma non ancora lo Speranza, – ed il proliferare di virologi per tutti i gusti, anche d’asporto.

Tra i quotidiani bollettini del tempo … pandemico e gli accesi colori regionali, forse ispirati ai bellissimi quadri di Van Gogh, cerchiamo di andare avanti e di portare a casa la pelle, ricordando che nella storia le pandemie hanno avuto cicli medi di due-tre anni. Perché, in buona sostanza, stiamo ancora adottando antiche misure sanitarie nell’attesa che il vaccino faccia il suo effetto.

Esiste, però, un virus più subdolo, silenzioso e difficile da debellare, che sfugge alla regola del ciclo pandemico e che da tempo si insinua nella nostra lingua. E’ la variante inglese dell’italiano, ovvero l’anglicismo per dirla con la Treccani.

Quanto più si vuole stemperare una parola o renderne incomprensibile il senso, tanto più il virus inglese avanza e si fa strada. E’ l’applicazione dello “E … ho detto tutto” del grande Peppino De Filippo

Il percorso in atto diviene work in progress (i Romani, con parola diretta ed elegante, dicevano semplicemente in itinere). L’attesa stand by.

Gruppo dirigente management, direttore manager, imprenditore businessman, fuoriclasse outsider.

Moda fashion, acquisti shopping.

Questo periodo di tempo sospeso ha visto sbocciare lo smart working, cioè il lavoro agile, per lo più da casa. In italiano: il forse lavoro da casa.

Infatti, nella nostra bella lingua l’infelice vocabolo acquista un significato variegato, ampio e contraddittorio.

Ottimo per i dipendenti della pubblica amministrazione che ne sono destinatari. Stipendio garantito, lavoro sotto la soglia minima di efficienza. Una vera pacchia.

Pessimo per i dipendenti delle imprese private, perché poco praticato; per loro il governo ha voluto rifarsi alla tradizionale cassa integrazione, figlia degli intramontabili ammortizzatori sociali e per molti, purtroppo, anticamera del licenziamento. Una vera tragedia.

Inviso per la composita galassia delle partite iva, fatta di pianeti caduti, per la maggior parte, nel buco nero del non lavoro forzato e destinatari degli effetti esterni dello smart working nella pubblica amministrazione. Una vera catastrofe.

C’è chi ha voluto superarsi si è fatto promotore della rivisitazione del latino, –l’inglese dell’impero Romano, – in chiave moderna.

Il ministro Di Maio, con colpo di genio e sguardo al futuro, ha declinato la pronunzia della parola latina virus nel più moderno vairus, non perché non sa che il vocabolo è di italica derivazione, ma per renderlo attuale e globalizzato.

Ha aperto così la frontiera dell’anglicismo nel latino.

Io, però, che sono un inguaribile conservatore, credo che nessuno, nemmeno il ministro Di Maio, riuscirà ad anglicizzare un vocabolo che tutti gli italiani passati e presenti hanno usato con soddisfazione almeno una volta.

Il vocabolo portato al successo, per omnia saecula saeculorum, dai longobardi è: stronzo, dal longobardo strunz, che significa sterco o pattume (Mario Cervi, “Perché parliamo italiano”, capitolo II° “Pro Deo amur”, pagina 22, Il Giornale Società Europea di Edizioni s.p.a.. marzo 1998).

Per noi beneventani, cittadini della capitale della Langobardia minor, non è vanto da poco essere diretti discendenti degli autori di una delle parole più utilizzate nel mondo, che sicuramente anche un inglese comprende senza traduzione.

UGO CAMPESE