Manovre lente In primo piano

I venti anni della seconda repubblica (nata con la dissoluzione dei partiti, struttura portante della Costituzione del 1948) sono stati contrassegnati dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi, che alle elezioni politiche del 1994 conquistò la maggioranza in Parlamento in virtù della quale ottenne la presidenza del Consiglio.

Ma non fu Berlusconi a rompere il “giocattolo” della prima Repubblica. Sospinto dalle folate della Procura della Repubblica milanese, alla quale diede man forte la grande stampa (certo: anche quella di proprietà della grande industria), l’apprendista stregone fu Mario Segni, presto identificato come “leader referendario”, perché utilizzò l’arma del referendum costituzionale (che è solamente abrogativo) per dare pesanti spallate al sistema. Il più importante dei suoi referendum fu quello per la abolizione delle preferenze plurime nelle elezioni della Camera dei Deputati, sul presupposto che fossero lo strumento della corruzione. Al grido “governabilità” fu modificata la legge elettorale, che per assegnare i due terzi dei posti alla Camera faceva ricorso a collegi uninominali (diventava deputato, uno per ogni collegio, il candidato prima eletto; il secondo non aveva alcuna speranza, poiché in caso di morte o quant’altro, si faceva una elezione suppletiva), restando in vigore il sistema proporzionale nel restante terzo dei collegi. L’architetto della nuova legge, resa necessaria dall’esito del referendum, fu l’attuale presidente della Repubblica e il politologo Giovanni Sartori ebbe buon gioco a definirla “Mattarellum”.

I partiti tradizionali, abituati alle dinamiche del sistema proporzionale con preferenze in collegi molto ampi (a cominciare dalla DC, di cui faceva parte Segni), tardarono a comprendere (fors’anche attraverso simulazioni) la portata del cambiamento. Berlusconi utilizzò l’arma dei sondaggi per intravedere le reazioni dell’elettorato, ma soprattutto evitò accuratamente i due maggiori schieramenti (gli eredi della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista Italiano) e aggregò alla neonata Forza Italia la Lega Nord di Bossi e il Movimento Sociale Italiano di Fini: con due distinte alleanze bidirezionali FI-Lega e FI-MSI. Lega e MSI non si parlavano neanche, ma per Berlusconi valeva la loro distinta presenza nelle aree geografica, la Lega al Nord e il MSI nel centrosud.

I lettori più giovani non sanno che Berlusconi fu azzoppato da un avviso di garanzia recapitato dai Carabinieri mentre a Napoli faceva il padrone di casa di un G8. Dovette scendere da cavallo e il presidente della Repubblica Scalfaro scelse una figura di centrocampo, il massimo che potevano sopportare quelli della sinistra che si inventarono la quasi dorotea soluzione di “ingoiare il rospo”. Con tutti i cambi di nome, per una ventina di anni si determinò una alternanza che vide la stella di Romano Prodi contendere la vittoria elettorale al Cavaliere.

Ben presto si comprese che a poco valgono le regole del gioco (al posto del Mattarellum arrivo il Porcellum e già quest’ultimo termine ci dà la misura dello sfascio), se all’esito delle votazioni gli eletti in Parlamento scoprono di essere “al servizio della nazione” e se ne fregano del partito che li ha eletti inaugurando una transumanza confusa. La politica nazionale ha visto per ben tre volte la chiamata di personalità estranee all’ambiente parlamentare per guidare il governo nazionale. Dopo Ciampi e Monti (e lo stesso Conte, che ha diretto due governi con due maggioranze cangianti) adesso è stato chiamato a guidare il governo Mario Draghi, super partes quanto nessun altro.

Questa lunga premessa ci aiuta a dare una risposta al quesito che corre sulla bocca di tutti in vista delle elezioni amministrative del prossimo autunno: e cioè, ci può essere una figura super partes da chiamare a fare il sindaco di Benevento? La risposta è no, perché il sindaco è eletto e, se muore o si dimette o il consiglio non approva certi atti fondamentali della gestione, lo scioglimento del consiglio comunale travolge il sindaco e si va ad una nuova elezione.

La elezione del sindaco si svolge in una atmosfera completamente diversa rispetto ai marchingegni escogitati per tenere in piedi un governo nazionale che, in mancanza di una “maggioranza” e di una opposizione, in parlamento gli preparano una “larghissima maggioranza” in cui ci sono tutti (per Draghi restano fuori, e si prendono tutti i benefici che toccano alla minoranza, i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni).

Non è pensabile che possa fare il sindaco uno che non abbia nessun collegamento con le rappresentanze politiche, sociali, culturali che andranno a proporre le liste verso le quali dovrà dirigersi la scelta degli elettori. Si votasse solo per il sindaco, tecnicamente si potrebbe immaginare un sindaco “sciolto” da ogni necessità di compromessi con chi andrà a sedersi in consiglio comunale.

Il meccanismo della sua elezione è, invece, fortemente connesso al numero delle candidature che ne debbano sostenere la elezione. Il meccanismo premiale che garantisce al sindaco eletto una squadra di consigliere maggiore della pura proporzione dei voti consiste propriamente nella elezione di più consiglieri del suo raggruppamento: a chi pensa che sia il nome del sindaco a fare il miracolo, rispondono gli esperti di campagne elettorali che certi scoop sono il frutto del lavoro meticoloso della truppa. Anche un sindaco di gran nome dovrà da subito fare i conti (assessorati, enti, rappresentanze) con la pancia molle dei suoi veri elettori (partiti, gruppi, petenti vari).

E’ più impegnativo di quanto possa sembrare la identificazione di una personalità capace di godere del sostegno di una rete di “politicanti” e di suscitare un consenso popolare senza il lavorio di quella rete.

Proprio la circostanza che i nomi non avanzano potrebbe significare che non ci sono. Altrimenti sarebbe sciocco non occupare gli spazi della discussione e dell’orientamento. Di tempo non ce n’è tanto.

Un tizio del paese dei miei avi che era invaghito di una bella bionda fu invitato a prendere l’iniziativa andandole incontro con la bicicletta al suo ritorno dalla festa di San Cosimo a Tocco Caudio. Lui chiarì un titubante proposito: “Si trovo la forcella, la monto, mi imparo de ‘i (sulla bicicletta) e le vavo a sci’ ‘nnanti”. E Mastella sorride.

MARIO PEDICINI