'Na tazzulella 'e café In primo piano
In questo mondo si corre spesso a vuoto. Sempre interconnessi nell’oceano di internet non c’è più tempo per pensare ma solo per … un selfie.
Il selfie è comodo, non pesa, è apparire senza essere. Ectoplasma della persona senza personalità. Si aggiunge una frase, magari presa in appalto, si posta …. et voilà il gioco è fatto.
Per farla breve, oggi l’equazione è: pensiero uguale selfie. Forma senza sostanza, intercambiabile come i capi di abbigliamento, le stagioni, le mode, aspirando a diventare … influencer.
Mentre rifletto su questo squallido scenario in radio passa “Na tazzulella e cafè” di Pino Daniele e mi si apre un mondo fantastico, pieno di colori, odori, sapori.
Insomma, un mondo vero, non virtuale, che non può racchiudersi in un selfie ma è custodito nello scrigno prezioso di chi lo ha vissuto. Un mondo così lontano eppure così vicino.
La mente scava, i ricordi tornano a galla.
Mi rivedo ragazzo a casa dei miei genitori. Mia madre mi aveva trasmesso il piacere per la preparazione della “caffettiera napoletana”, che era composta di due parti. Una, in cui riporre il caffè macinato e poi richiudere con il coperchio, avvitandolo. L’altra, in cui versare l’acqua stando attenti a non superare un certo livello, altrimenti il risultato sarebbe stato molto al di sotto delle aspettative.
Non erano gesti da fare in modo meccanico e con indifferenza, ma con uno stato d’animo al quale predisporsi con gentilezza, calma ed attenzione.
Il caffè macinato andava pressato bene; il segreto per non farlo uscire troppo carico era quello di fare quattro piccoli fori con uno stuzzicadenti.
Chiusa la parte con il caffè, l’altra parte andava riempita con l’acqua.
Assemblata, la macchinetta napoletana andava messa sul gas acceso dal verso con l’acqua; raggiunto il bollore andava girata, in modo che l’acqua filtrando nella parte con il caffè macinato lo trasformasse in caffè liquido.
Si diffondeva un bellissimo aroma inondando la cucina e, nell’attesa che avvenisse il … miracolo, si respirava caffè prima di berlo.
E’ famoso il monologo di Eduardo De Filippo (che consiglio vivamente di vedere su YouTube) in cui svela i suoi piccoli segreti per avere un ottimo caffè preparato con la caffettiera napoletana, fra cui quello di chiuderne il beccuccio con un “coppetiello di carta”, in modo che l’aroma non si disperda (come, invece, facevo io).
L’attesa era il tempo più bello. Per dirla alla De Filippo, era un momento di “poesia della vita” da cogliere con “serenità di spirito”, “zelo ed amore”.
Si conversava della quotidianità familiare, la fretta e l’ansia erano sconosciute. Il rito doveva compiersi nel suo tempo e con il suo tempo. Non c’erano santi.
Se qualche volta ero solo, dopo aver preparato e messo sul gas la caffettiera, l’attesa era avvolta nei miei pensieri di ragazzo, conditi dalla fantasia e da sogni ad occhi aperti.
Altro compito al quale ero deputato era l’acquisto del caffè alla torrefazione, dove mia madre mi mandava con l’indicazione della qualità e quantità.
A volte lo faceva macinare, altre volte lo prendeva in chicchi ed allora la poesia era doppia perché, prima che lo macinasse per compiere rito della caffettiera napoletana, io le rubavo un chicco e l’aroma riempiva bocca e narici.
Poi, il “progresso” ha travolto la romantica caffettiera napoletana, prima con il diffondersi della Moka (chi non ricorda l’intramontabile Bialetti), eutanasia di un momento di poesia, poi con l’avvento di capsule e cialde.
Il caffè è diventato come un selfie.
Prima era stile di vita: espressione irrinunciabile dell’essere e del pensare con amore.
Un toccasana dell’anima, buttato via come una qualsiasi capsula usata.
UGO CAMPESE