Tempo di guerra In primo piano

Abbiamo tentato di aprire il cuore alla speranza, pensando di vedere all’orizzonte l’uscita dall’emergenza della pandemia da Covid. Certi segnali, come le scie bianche degli aerei sulle rotte internazionali o di notte i fari degli aeroplani che scendono sopra le nostre teste per atterrare a Capodichino, facevano ben sperare.

Non ci aspettavamo l’incubo di una guerra, nella quale ci troviamo coinvolti per effetto delle alleanze imposte dagli esiti della seconda guerra mondiale. Tra i quali gli assetti del governo mondiale, con i cinque membri del consiglio di sicurezza dell’ONU titolari del potere di veto contro il quale nulla possono i quasi 200 stati sovrani facenti parte dell’assemblea generale. L’Italia, anche per gli obblighi sanzionati dal trattato di pace del 10 febbraio 1947, si è trovata nella necessità di allearsi con le democrazie cosiddette “occidentali” mettendosi in scia alle “grandi potenze” con l’adesione al Patto Atlantico (una alleanza politico-militare costituita il 4 aprile 1949) in sigla italiana OTAN (Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord) che diventa familiare come NATO (North Atlantic Treaty Organization). L’Italia è anche socio fondatore di quello che da Mercato Comune Europeo è diventata Unione Europea.

Sia i paesi del Patto Atlantico, sia quelli dell’Unione Europea sostengono l’Ucraina nella resistenza alla grande potenza della Russia, in parte erede di quella Unione Sovietica che - alleata di USA, Regno Unito e Francia - fermò ad Est l’aggressione nazista. Siamo in guerra? La lingua italiana ci consente di rispondere con un “quasi”. Anche se ci chiamassimo fuori, peraltro, non potremmo non scontare le conseguenze economiche e sociali dello “stato di guerra”.

Conseguenze che riguardano gli spiccioli della vita quotidiana di ogni piccola comunità umana. Ce ne accorgiamo dagli aumenti dei prezzi dei beni di prima necessità. Gli imprenditori hanno difficoltà ad approvvigionarsi di materie prime e di prodotti che la globalizzazione ci aveva suggerito di far realizzare in mercati meno sviluppati dove, ad esempio, la manodopera costa meno. La globalizzazione, per effetto della quale gli interessi economici non erano ostacolati dalle appartenenze ad apparati sociali di diversa genesi religioso-ideologico-culturale, è sostanzialmente sospesa.

Per semplificare al massimo significa che non potremo importare il grano, o i chip per i prodotti informatici, o le batterie delle automobili elettriche che pur ci vengono imposte. Se va in pausa il mercato mondiale, ai bisogni della vita quotidiana si deve far fronte dall’interno. Il grano dobbiamo ritornare a coltivarlo e a produrlo noi. Ci dovremo attrezzare per una organizzazione verso il made in Italy. La stessa Amazon ce la farà a portare sotto casa qualsiasi prodotto proveniente da ogni parte della terra? E a quale prezzo?

Tifiamo per la pace, senz’altro. Ma il ristabilimento di rapporti “sportivi” tra le diverse “parti” della scacchiera mondiale non ci riporterà indietro, come se nulla fosse avvenuto. Senza perdere altro tempo, allora, bisogna riprogrammare le funzioni e i ruoli dei vari soggetti pubblici e privati. A partire dal bilancio familiare, risalendo a quello comunale, a quello provinciale e così via.

Non è tempo di elaborare chiacchiere, ma di organizzare fatti. Nessuno più può pensare di scaricare su altri (ma, altri chi?) certe scomodità, perché non saranno disponibili risorse finanziarie per compensare chi si piglia il fastidio di smaltire i nostri rifiuti; né ci sono risorse per “comprare” da chi alzerà i prezzi le cose necessarie alle nostre comunità.

E’ tempo di abbandonare le utopie trasformate in barriere invalicabili dagli esiti referendari. Penso al nucleare. Quel no al nucleare votato dai connazionali fino a quando può impedire un ripensamento per l’installazione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica? Saremo ancora orgogliosi di aver detto no all’eolico, o di continuare a far cause contro i moderni mulini a vento? Saremo ancora così sciocchi da far scorrere verso il mare tutti i corsi d’acqua senza utilizzarne le potenzialità per produrre energia o per irrigare i campi? Faremo le barricate se qualcuno vorrà traforare l’Appennino per ricercare petrolio e gas?

Il “ripensamento” del modo di vivere non è rinviabile. Tocca alle élite culturali e politiche aprire una stagione di sapiente rimodulazione degli obiettivi da perseguire. Come nel 1949, quando l’ERP (European Reconstruction Programa, più banalmente Piano Marshall) fu spiegato anche nelle scuole elementari. Bisognava, e bisogna, creare consapevolezza. Partendo dall’ovvio “indietro non si torna”.

MARIO PEDICINI