Sono dazi amari Politica
Sono dazi amari. Ogni mattina un europeo si sveglia e sa che dovrà temere ciò che avrà escogitato dall’altra parte dell’oceano il leader della nazione più potente del mondo. L’ultima trovata, nel momento in cui scrivo (quindi potrebbe essere già storia antica quando leggerete quest’articolo), sono i dazi imposti sui film prodotti fuori dagli Stati Uniti.
Una misura che a ben vedere ha ben poco senso: se c’è un settore nel quale gli Stati Uniti primeggiano a livello globale, quello è il cinema. La settima arte nacque in Francia nel 1895, ma sono gli americani che l’hanno trasformata in un’industria in grado di produrre profitti per miliardi di dollari. Se andiamo a vedere la classifica dei dieci film che hanno realizzato i maggiori incassi nella storia, sono tutti film americani, da Titanic alla saga di Star Wars, dagli Avengers ad Avatar.
Fuori dagli Stati Uniti l’industria cinematografica è comunque fiorente, ma i film europei ed asiatici (il cinema africano esiste, ma ha ben pochi spettatori persino nei festival) realizzano la quasi totalità dei loro incassi sui mercati casalinghi o comunque nei paesi limitrofi. Negli USA il pubblico guarda quasi esclusivamente film nella lingua madre, quindi film americani, britannici, canadesi o australiani. I film girati in lingue diverse dall’inglese circolano in poche sale d’essai, sottotitolati.
È vero che negli ultimi dieci anni anche negli Stati Uniti le cose iniziano a cambiare: film stranieri hanno conquistato prestigiosi riconoscimenti, persino premi Oscar, come quello assegnato nel 2020 al coreano Parasite come miglior film. Ma si tratta di felici eccezioni.
Dunque, in che modo i dazi contro i film girati all’estero dovrebbero proteggere l’industria cinematografica di Hollywood? A sottrarre spettatori paganti alle case di produzione cinematografiche americane non sono i film stranieri, bensì i colossi dello streaming, che realizzano ormai prodotti di qualità cinematografica, con budget elevati ed attori di primo piano, destinati non alle sale ma direttamente al mercato dell’home video. E naturalmente, anche le grandi società di streaming, Netflix, Disney+ ed Amazon Prime, sono americane, perciò non sarebbero toccate dai dazi che Trump vorrebbe imporre.
Si può allora pensare che la misura protezionistica dei dazi voglia colpire non i capitali stranieri, ma quei prodotti finanziati dalle major statunitensi che sono girati all’estero. A causa di regimi fiscali più favorevoli, oggi è infatti frequente che le megaproduzioni siano scritte, prodotte, dirette ed interpretate da cineasti americani, ma che le riprese avvengano fuori dagli States. Il Canada, per esempio, è la sede in cui sono girate innumerevoli serie tv, soprattutto la città di Vancouver.
Paesi europei come la Bulgaria, la Romania o la Slovacchia sono invece il set preferito da chi vuole girare film ambientati nel passato. Le foreste ancora incontaminate possono essere lo scenario per una pellicola ambientata nel Medioevo, ad esempio. Una serie come Il trono di spade, d’ambientazione fantasy, è stata girata un po’ ovunque (Croazia, Spagna, Islanda, Marocco, Malta) tranne che negli Stati Uniti. Obbligare le case cinematografiche a riportare la produzione dei loro film in patria potrebbe dunque essere un modo per creare posti di lavoro.
Ma la mossa dei dazi non tiene conto di un’eventuale contromossa: se, come avvenuto per altri prodotti colpiti da misure protezionistiche, il resto del mondo decidesse di rispondere imponendo dei controdazi sui film americani, questo potrebbe tradursi in un danno enorme per l’industria del cinema. I film statunitensi, infatti, vengono esportati in tutto il mondo e spesso e volentieri all’estero racimolano profitti superiori rispetto a quelli ottenuti in patria.
Imporre dei dazi in un settore dove l’America domina finirebbe così per rivelarsi un boomerang e danneggiare quell’industria hollywoodiana, la fabbrica dei sogni, che nelle intenzioni avrebbe dovuto proteggere. Non sarebbe per nulla un happy ending.
CARLO DELASSO