Due facce di una medaglia Società

È l’inizio del mese di marzo e davvero a poche ore di differenza due mondi sono sconvolti da una terribile notizia: quello Accademico perché Diana, giovane studentessa universitaria, ha deciso di mettere fine alla propria esistenza terrena; quello Istituzionale poiché lo stesso gesto fatale, poche ore dopo, lo compie Bruno Astorre, senatore della Repubblica, proprio tra le mura del Senato.

Notizie per lo più trattate distintamente ma sulle quali forse può cogliersi più di qualche punto di convergenza.

Tra le varie sovrastrutture della nostra società, infatti, quelle che sicuramente la fragilità dimostra di non conoscere sono relative alle categorie della diseguaglianza o, in accezione neutra, delle (naturali) diversità tra gli esseri umani.

Senza differenze di sesso, età, genere, opinioni politiche, condizioni culturali o religiose, gli esseri umani conoscono egualmente momenti o condizioni di fragilità. E così la storia, questa tragica storia, non si ferma davanti a un portone né di una giovane studentessa in difficoltà, né di un senatore della Repubblica.

Questa premessa, che forse appare scontata, è davvero, credo, il tassello mancante della riflessione collettiva e come tale va specificata perché la narrazione - giusta - sul rapporto tra studenti con difficoltà di percorso e decisioni così estreme, rischia di creare un pericoloso fraintendimento.

Si legge nel cordoglio di colleghi, amici, familiari o nelle battute della pubblica opinione, che il problema risieda nel vivere con maggiore serenità il proprio fallimento, la propria difficoltà, nel vivere senza rimanere schiacciati dal peso di una società che è tutt’altro - ormai è noto - che inclusiva e accogliente, insomma, non è (o non ancora, per essere ottimisti) una tenda comune.

Allora il nodo del discorso riguarda proprio la natura del concetto di difficoltà, troppo spesso legata a una condizione di fallibilità materiale, per così dire oggettiva: essere indietro con lo studio, trovarsi in condizione di disoccupazione, vivere il dramma del gioco, della droga, dell’alcolismo.

Si tratta di ipotesi, tutte, che meriterebbero autonoma trattazione perché - anche qui - aleggia il rischio concreto di imputare al singolo una qualche responsabilità derivante dalla scelta (libera?) di aver fatto male o di non aver fatto abbastanza; rischio che non è altro che il precipitato del comune sentimento di intolleranza e della certezza che sia necessario vivere più per imitazione del prossimo che per convinzione personale.

Ma ripercorrendo il sentiero del discorso principale c’è da ritenere che, dunque, il nodo di una concezione di fragilità legata al fallimento materiale, se vogliamo anche in senso ontologico, si scontra con la scelta dello stimatissimo senatore Bruno Astorre che, nel pieno della sua vita, di lungo corso parlamentare e ai vertici di un importante partito nazionale, ha compiuto la stessa drammatica scelta di Diana.

E allora sono forse due facce della stessa medaglia?

E sì, per le ragioni che - in modo forse circolare - provavo a sostenere in origine: la materialità degli eventi non è il cardine della fragilità, del percepirsi soli, dell’affrontare la disperazione. E se riuscissimo a condividere questa breve parentesi, capiremmo anche che molte volte i rimedi con cui pensiamo di colmare dei vuoti sono inefficaci e che i sentimenti di cui siamo, come società, animati e sui quali costruiamo quotidianamente le nostre convinzioni sono forse, davvero, il centro della medaglia.

LUCA CAVALLI