Il lavoro ospedaliero non è più appetibile. E' solo questione di soldi? Società

In Italia siamo abili nello spostare i problemi. Mancano i medici, togliamo il numero chiuso all’accesso alla facoltà di medicina e chirurgia e avremo risolto. È proprio così? I dati ci dicono che siamo nella media Ocse in rapporto al numero di abitanti. Il fatto è che mancano medici intesi non come laureati in medicina e chirurgia, ma come specialisti, soprattutto in determinate discipline.

E non si pensi che sia dovuto allo scarso numero di laureati o ai pochi contratti di formazione specialistica, stante il fatto che negli ultimi tre anni i posti a medicina sono aumentati del 30 per cento e quelli nelle scuole di specializzazione sono raddoppiati, ma più prosaicamente perché il Servizio sanitario nazionale (Ssn), e il lavoro ospedaliero, non è più appetibile: mancano i soldi da dare ai medici.

È del 70 per cento la differenza retributiva tra i medici italiani e i medici tedeschi. Strano che gli stessi politici che oggi s’adoperano per l’abolizione del numero chiuso abbiano dimenticato come si sia giunti a tanto.

Fino al 1923 la facoltà di medicina poteva essere frequentata solo da diplomati in materie classiche. A partire da quell’anno fu consentito anche a chi aveva ottenuto il diploma al liceo scientifico. La vera svolta arrivò nel 1969, quando fu data la possibilità a tutti i diplomati di poter accedere senza alcun tipo di limite. Questo portò di conseguenza a un numero esorbitante di medici rispetto alla reale richiesta. Si dovette giungere al 1987 perché s’invertisse la tendenza, quando con decreto ministeriale venne introdotto il test d’ingresso, proprio per regolamentare il numero di laureati e soprattutto per effettuare una selezione in base alla qualità delle conoscenze di ogni candidato.

Il numero programmato - questa la vera definizione, poi divenuta impropriamente “numero chiuso” - nazionale è stato introdotto per la prima volta con la legge 264/99, ancora in vigore, del ministro Ortensio Zecchino, a seguito della sentenza numero 383/98 della Corte costituzionale che richiedeva la valutazione delle modalità d’accesso all’università.

La nuova legge era giustificata da due direttive della Comunità europea che richiedevano un sistema di formazione che garantisse alti standard.

I posti disponibili dovevano essere definiti in base: ai posti nelle aule, attrezzature e laboratori scientifici; personale docente, personale tecnico; servizi di assistenza e tutorato; al numero di tirocini attuabili e dei posti disponibili nei laboratori e nelle aule attrezzate per le attività pratiche; alle modalità di partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie.

Insistere quindi sul numero di accessi liberi è fuorviante, infatti non è scontato che questa accresciuta platea resista alle sirene del privato o dei Paesi arabi, se non si rende concorrenziale, per condizioni e retribuzioni, il lavoro del Ssn.

Salvo che non si vogliano rinverdire i fasti della pletora medica degli anni Ottanta, fornendo al mercato sanitario forza lavoro a basso costo e con un potere contrattuale azzerato; il trionfo del lavoro precarizzato e a cottimo, con retribuzioni e diritti ancora più bassi di oggi.

Ammesso che si voglia seguire il modello francese, oggetto di ripensamenti nella stessa Francia, ossia accogliere 70mila studenti al primo anno per rinviare la selezione al secondo, come faranno le università che hanno problemi di organico non molto differenti da quelli del Ssn, visto che lamentano una carenza d’infrastrutture e docenti, a soddisfare le esigenze formative di un corso di studi essenzialmente pratico?

C’è solo da augurarsi che i giovani non si facciano illudere da una proposta che mira solo a stornare l’attenzione dai reali problemi del mondo del lavoro nella sanità pubblica d’oggi, un’arma di distrazione di massa che prepara per loro un futuro da sottoccupati se non disoccupati.

GIANCARLO SCARAMUZZO

giancarloscaramuzzo@libero.it