Il politically correct ai tempi dei social. Censura per termini come: ''negro'', ''sordo'' e ''cieco'' Società

La censura colpisce ancora. Nei secoli, ogni forma di rappresentazione artistica ha dovuto subire censure da parte dell’autorità costituita per i più svariati motivi. L’arte, che di per sé dovrebbe essere libera espressione del pensiero, è stata invece piegata e a volte zittita per ragioni politiche, religiose, morali e chi più ne ha più ne metta. Vi sono state dittature che hanno bruciato libri, opere d’arte o direttamente gli artisti.

Tra i personaggi storici che hanno rivestito i panni del severo censore si possono annoverare dittatori, primi ministri, papi (in tempi non così remoti un implacabile censore di pellicole cinematografiche fu il democristiano Andreotti). Oggi invece la censura più spietata è operata dagli algoritmi e colpisce non solo gli artisti, ma anche i comuni cittadini che utilizzano i social network.

Il fulcro intorno al quale ruota la censura è essenzialmente il “politically correct”, quel principio di matrice anglosassone in base al quale è considerato un insulto chiamare cieco chi non è in grado di vedere o sordo chi non può sentire. In virtù della correttezza sono nate locuzioni quali non udente, diversamente abile, non più giovane, operatore ecologico, nativo americano e molte altre che pian piano hanno spazzato via dal linguaggio comune i termini di cui sono sinonimi. Al punto tale che oggi certe parole sono universalmente bandite, a meno di non voler essere identificati come razzisti, omofobi, xenofobi o più semplicemente come persone pessime.

In nome del “politically correct” si è arrivati persino ad effettuare nuove traduzioni, o anche revisioni, di opere letterarie nelle quali, data l’epoca in cui furono scritte, non si badava a certe sottigliezze. Nei romanzi di Mark Twain, come ad esempio Tom Sawyer o Huckleberry Finn, l’uso ricorrente del termine “negro” è stato rimpiazzato da espressioni più moderne che però lo scrittore americano probabilmente non ha mai usato in vita sua.

Analoga sorte ha sofferto l’anno scorso il proprietario di una concessionaria automobilistica che si è visto negare da Facebook l’autorizzazione a reclamizzare la propria rivendita, a causa del suo cognome: Negro, appunto. Viene spontaneo domandarsi quanto a lungo potranno resistere un noto amaro ed una celebre marca di salumi, per non dire poi dello stato balcanico del Montenegro.

Altra vittima inevitabile della censura è il nudo. Nonostante nell’arte nudi maschili e femminili compaiano sin dai tempi più remoti, tuttora il nudo artistico è oggetto di controversie. Se alcuni siti di hosting di immagini, come ad esempio flickr, non pongono limiti alla pubblicazione di foto di nudo, purché i soggetti ritratti siano maggiorenni e consenzienti, i più popolari social network, Facebook e Instagram, proibiscono categoricamente ogni immagine di nudo, non solo integrale, ma anche fotografie che ritraggano il seno nudo femminile.

Poiché gli utenti dei social sono ormai un numero cospicuo ed i contenuti condivisi ogni giorno sono svariati miliardi, il controllo di questi contenuti non è affidato a persone in carne ed ossa ma ad algoritmi, ossia programmi tarati su determinati parametri che svolgono in automatico un lavoro di cernita incessante.

Ecco così che l’algoritmo non è in grado di distinguere una scena di un film porno da un dipinto rinascimentale e mette sullo stesso piano il David di Michelangelo e un nudo frontale di Rocco Siffredi. E censura le immagini di una madre che allatta al seno il proprio bebè al pari del paginone centrale di Playboy.

Numerosi utenti hanno protestato contro questo sistema fin troppo rigido, che rischia di sprofondare i social in un oscurantismo di stampo medievale, ma la distinzione tra arte ed oscenità è qualcosa di soggettivo persino per gli umani, figuriamoci per un algoritmo.

Ecco, se vi siete mai chiesti come sia fatto un algoritmo o che aspetto abbia, d’ora in poi vi suggerisco d’immaginarlo non come una striscia di codice in linguaggio informatico, bensì come quel sacerdote che, nel film Nuovo cinema Paradiso di Tornatore, suonava la campanella per indicare al proiezionista di tagliare le scene di baci.

CARLO DELASSO