Il silicio è l'oro del futuro? Società

Il silicio è l’oro del futuro? Certamente i nostri figli o le nostre figlie non indosseranno fedi nuziali né altri gioielli in silicio, ma senza dubbio questo materiale, insieme ad altri, è destinato ad occupare uno spazio sempre maggiore nelle nostre vite.

Non solo il silicio: esiste un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, le cosiddette “terre rare”, composto da semiconduttori dai nomi bizzarri come prometio o gadolinio, che sono indispensabili per la produzione di chip, quindi dei processori che l’industria informatica impiega ormai in ogni accessorio tecnologico, dai computer agli smartphone fino agli smartwatch ed ai più moderni elettrodomestici. Ogni oggetto che impieghi un processore necessita di chip e quindi, oltre a materiali più noti come il rame o l’oro (impiegato in quantità infinitesimali, al punto che estrarlo dai rottami dei computer verrebbe a costare più del valore intrinseco del biondo metallo), abbisogna anche di queste terre rare che, come suggerisce il nome, non sono molto facili da reperire in natura.

Lo stesso discorso vale per il cobalto, che molti conoscono solo per il colore blu che lo caratterizza. Per un bizzarro scherzo del destino, il cobalto e le terre rare non sono distribuiti in maniera uniforme sul pianeta, ma la maggior parte dei giacimenti (in alcuni casi la quasi totalità) è situata in paesi poveri o poverissimi. Le zone più tecnologicamente arretrate del globo sono quindi le più ricche di materiali di cui la parte ricca e schiava delle tecnologie avanzate ha un disperato bisogno.

Il Congo, per fare un esempio, è il paese più ricco di giacimenti di cobalto ed è lì che ditte cinesi estraggono il minerale blu impiegando manodopera locale sottopagata, che lavora spesso in condizioni che sarebbero illegali nella maggioranza dei paesi occidentali, per arricchire aziende straniere.

È infatti risaputo che la Cina è il maggior produttore al mondo di chip e microprocessori. Anche le aziende europee, americane o giapponesi delegano la creazione delle componenti interne a ditte cinesi (per rendersene conto, basta aprire un pc, uno smartphone o qualunque apparecchio hi-tech e leggere all’interno il paese di fabbricazione del processore). Dunque, i prodotti che abbiamo in tasca o nelle nostre case, pur appartenenti a marchi italiani o di multinazionali come Apple, Microsoft o Sony, contengono tutti delle minime tracce di minerali estratti in Africa o nel sud-est asiatico da lavoratori ingiustamente sfruttati.

Si potrebbe arrivare a parlare di una nuova forma di colonialismo, più subdolo forse di quello che caratterizzò la scoperta delle Americhe o la conquista dell’Africa da parte delle potenze europee, ma il fine ultimo è sempre lo stesso: il profitto, che stavolta non ingrassa le tasche dei sovrani assoluti o degli stati totalitari, ma di poche aziende già multimilionarie. È ironico oltretutto come la Cina, che si dichiara una nazione comunista, sia poi il principale beneficiario di questa forma di colonialismo del nuovo millennio.

Ma siamo noi consumatori, in ultima analisi, i finanziatori di una colossale violazione dei diritti umani dei più poveri. Con i nostri acquisti, con il nostro crescente desiderio di possedere l’ultimo gadget immesso sul mercato, alimentiamo un circolo vizioso di sfruttamento e profitto.

In passato, l’opinione pubblica si è mobilitata per porre fine ad un simile fenomeno, quello dei cosiddetti “conflict diamonds”, i diamanti estratti in zone di guerra da manodopera ridotta in stato di semischiavitù. Grazie a leggi e trattati internazionali, oggi i diamanti messi in commercio devono essere in possesso di una certificazione ad hoc che garantisca la loro origine. Dunque, la comunità internazionale dovrebbe prendere provvedimenti affinché anche il silicio, il cobalto e le terre rare siano forniti alle aziende utilizzatrici senza che la loro estrazione avvenga in spregio dei diritti umani.

CARLO DELASSO