La scomparsa del Barone Don Mimì Petruccelli Società

Con la scomparsa del Barone Domenico Petruccelli - per tutti semplicemente Don Mimì - si chiude un ciclo storico per due comunità, quella di Baselice (Benevento) suo luogo di nascita, e quella di San Giovanni Rotondo (Foggia) ove anche viveva e dove si è spento quasi novantaquattrenne a mezzanotte del 24 gennaio presso la Casa Sollievo della Sofferenza per una grave insufficienza cardiaca e renale.

Si chiude un ciclo storico per il suo lunghissimo impegno nello sport e nella società civile, ma anzitutto perché Don Mimì ebbe da sempre un saldo legame con Padre Pio da Pietrelcina così come lo ebbero suo padre il Barone Pietro e sua madre Adelaide Lagorio, nobildonna genovese giunta giovanissima a San Giovanni Rotondo per votarsi a opere di bene sotto la guida del frate cappuccino, ma poi proprio da lui indotta ad accettare la proposta di matrimonio del gentiluomo suo caro amico, dicendole: «Se vi volete bene sposatevi; si va in paradiso anche da sposati…ma le tue ossa non invecchieranno».

Adelaide Lagorio morì infatti appena trentaduenne nel 1937 a seguito del quinto parto ma, come pure previsto dal Santo frate, in dodici anni di unione coniugale si guadagnò il paradiso costituendo una famiglia esemplare ed educando alla fede e all’abnegazione i suoi figli, a cominciare proprio da Mimì - il primogenito che nacque a Baselice il 20 agosto del 1926 - cui seguirono Maria Carmela, Alberto, Lucia e, ultima nata, Adelaide, alla quale fu appunto dato il nome della sfortunata mamma.

Dopo il grave lutto la vita in casa del Barone Petruccelli fu più di prima totalmente votata al prossimo, e in questo Mimì più di tutti ereditò appieno dalla madre la bontà e lo spirito caritatevole che concretizzò soprattutto in favore dei giovani quando - negli anni Sessanta in cui lo sport era un privilegio per pochi - diede un fattivo supporto all’A.C. San Giovanni Rotondo nel campo calcistico, istituendo poi la Sangiovannese agli inizi degli anni Settanta con squadre di calcio, pallavolo e atletica leggera, e infine sostenendo le iniziative della nascente associazione Atletica Padre Pio. La promozione di tali attività andò tuttavia ben oltre la semplice passione per lo sport poiché fu per lui un atto d’amore per i suoi ragazzi che sui campi vide poi crescere, diventare grandi e spesso affermati atleti o professionisti; a loro insegnò prima d’ogni cosa lealtà e correttezza, e lo fece senza mai ambire ad alcun tornaconto economico personale, tant’è che per questa causa Don Mimì - il quale grazie agli agi familiari viveva di rendita e avrebbe potuto continuato a farlo per tutta la vita - non esitò invece a servirsi di tutte le proprie sostanze ereditate dai genitori.

Il suo era infatti uno slancio spontaneo e ininterrotto dove si fondevano sentimento, generosità, altruismo, amicizia, umiltà, disinteresse, semplicità e soprattutto tanta fede, alimentata dal costante e saldissimo rapporto con Padre Pio che si tradusse tangibilmente, anche in questo caso, a favore della Chiesa e del convento dei Cappuccini, nonché dell’erigenda Casa Sollievo della Sofferenza inaugurata dal futuro Santo nel 1956 e cresciuta negli anni a venire fino a diventare uno degli ospedali italiani d’eccellenza; qui Don Mimì era di casa, amico dei medici e del personale a cui si rivolgeva ogni qualvolta gli arrivava una richiesta di aiuto dai suoi concittadini di San Giovanni e di Baselice, e a loro ovviamente apriva pure le porte delle sue case così come era sempre pronto a dare un aiuto o una parola di conforto.

Uomo di fede vera e profondissima, mai esibita ma sempre praticata con riserbo e modestia, diede in silenzio il suo aiuto ai poveri e anche dopo la morte di Padre Pio continuò a frequentare con assiduità il convento dei Padri Cappuccini per promuoverne il culto, così come intensi e costanti furono i suoi rapporti con la Curia di Benevento e con i parroci di Baselice, il paese natale ove nel suo palazzo trascorreva lunghi periodi e dove pure diede tangibile sostegno allo sport locale, meritando infatti la Medaglia d’Oro al Merito Sportivo conferitagli da Franco Carraro presidente della Figc e Artemio Franchi vicepresidente della Uefa nel 1977.

Sposatosi nello stesso anno Antonia Jelardi da cui non ebbe figli, Don Mimì ebbe sempre nel cuore anche la sua grande famiglia cui dedicò altrettanto impegno con tangibili manifestazioni d’amore che alimentavano il carattere di uomo immensamente buono, sempre pronto a darsi al prossimo anche negli ultimi anni di vita quando venne rattristato dalla morte della moglie, della sorella Carmelina, del fratello Alberto e di uno degli adorati nipoti, Giampietro Iadanza.

Ritiratosi da tempo dalle attività nello sport, gli furono amorevolmente accanto la sorella Adelaide e l’affezionatissimo Kenan, ma ogni giorno non mancavano le visita dei tantissimi amici poiché per tutti era rimasto il grande e insostituibile Presidente di sempre: quando lo chiamavano Don Mimì “lu barone”, lui, per modestia, tratteneva a stento uno scatto di irritazione, ma poi capiva che quel gesto di rispetto era generato dalla gratitudine e non solo dal nobile casato, e così sorrideva contento e appagato di aver fatto del bene, di aver donato felicità, e che qualcuno si ricordasse ancora di lui. Fu questa infatti l’unica cosa che disse, ringraziando tutti, quando nel 2014 l’Amministrazione Comunale di San Giovanni Rotondo guidata dal sindaco Luigi Pompilio gli conferì ormai ottantottenne un premio di benemerenza per «L’impegno nel mondo dello sport, con la fondazione e lo sviluppo di società sportive, che ha permesso a tante generazioni di sangiovannesi di avvicinarsi allo sport e, in molti casi, di affermarsi in specifiche discipline sportive. La Città di San Giovanni Rotondo le è immensamente grata per aver contribuito a incentivare sul nostro territorio la passione per lo sport».

Nel giorno delle esequie concelebrate dall’amico di vecchia data Domenico D’Ambrosio Arcivescovo emerito di Lecce, l’intera comunità sangiovannese gli ha reso l’ultimo omaggio prima del trasferimento della salma a Baselice, dove il parroco Don Michele Benizio ha voluto officiare un secondo funerale poiché Don Mimì - barone nei fatti oltre che nel titolo - meritava anche il commosso e sincero abbraccio del proprio paese ove ha lasciato un segno profondo per la sua vicinanza ai giovani, ai poveri e ai sofferenti.

Unanime e sincero il cordoglio pure dei media e sui social da parte di chi lo conobbe, tra i quali Nicola Palladino che scrive: «Quando eravamo ragazzi ci bastava una palla per sentirci invincibili, una squadra per sentirci amici, una stessa maglia per sentirci uniti, un campo, una pista, le strade di un altro paese, per sognare l’impossibile. Lo chiamavamo calcio, atletica e pallavolo. Lui è stato il Presidente “Don Mimì lu Baron”, ed era bellissimo».

ANDREA JELARDI