Quando il politicamente corretto rischia di cancellare la storia che è stata Società

È stata un’estate insolita quella che si avvia a conclusione. Il coronavirus ha sconvolto le nostre abitudini e, anche se siamo ormai da tempo nella fase 3, la nuova ondata di contagi susseguente ai rientri dalle vacanze estive, ma dovuta principalmente ai comportamenti sconsiderati tenuti da molti durante queste ultime, rischia di farci ritornare indietro di mesi e sta mettendo in dubbio persino la tanto attesa (soprattutto dai genitori) riapertura delle scuole, fissata per il 14 settembre.

Il coronavirus è uno dei due macigni che potrebbero mandare in frantumi le speranze di Donald Trump di essere rieletto alla Casa Bianca il prossimo novembre. Il secondo è la crescente ondata antirazzista, sorta spontaneamente lo scorso maggio in seguito alla morte di George Floyd, e mai arrestatasi in questi ultimi mesi.

Come spesso accade quando ci sono di mezzo i social, in America si è passati quasi inconsapevolmente da un estremo all’altro. Perché se il razzismo è senza dubbio un male, la protesta contro i comportamenti razzisti delle forze dell’ordine, delle autorità e della società statunitense in generale si è tramutata in una crociata che paradossalmente sfiora il fondamentalismo antirazzista. Taluni, a giugno, sono arrivati persino a chiedere l’abolizione della polizia negli Stati Uniti. In un paese dove il numero di armi da fuoco è superiore al numero di abitanti, non mi pare proprio un’idea brillante.

La lotta al razzismo si è tramutata in una moderna caccia alle streghe. E a finire sul rogo non sono solo i razzisti dei giorni nostri, ma anche tutti i comportamenti del passato recente e lontano sono stati vagliati sotto la lente d’ingrandimento del modo di pensare di oggi e bollati come razzisti secondo criteri molto rigorosi.

Ecco così che in America sono state abbattute statue che commemoravano generali degli stati confederati o filantropi del 19° secolo che al tempo stesso facevano affari commerciando in schiavi. Anche il nostro Cristoforo Colombo è stato rimosso da diversi piedistalli, colpevole di aver favorito, scoprendo l’America, lo sterminio delle popolazioni indigene. Identica sorte è toccata nel Regno Unito a statue di vecchi lord inglesi o gentiluomini, rei di aver trafficato in schiavi nell’epoca in cui la schiavitù, pur sempre abominevole, era considerata un commercio come un altro. Ed in molti hanno chiesto addirittura la rimozione delle statue di Winston Churchill, a suo tempo autore di affermazioni razziste, dimenticando che senza la sua azione come Primo Ministro negli anni dell’ultima guerra, la Gran Bretagna sarebbe caduta nelle mani di un dittatore di gran lunga più razzista di chiunque altro al mondo.

La protesta ha colpito incidentalmente anche l’Italia, dove la vittima più illustre è stato Indro Montanelli. Scrittore, storico e soprattutto giornalista tra i più influenti del secolo passato, la sua colpa imperdonabile è quella di aver sposato, ai tempi della campagna d’Etiopia, quando aveva 27 anni, una dodicenne autoctona, in quella che allora era vista come consuetudine tra le truppe coloniali, ma che oggi senz’altro è un gesto da condannare. Anche se, per sua ammissione, quando molti anni dopo il giornalista fece ritorno in Etiopia, rivide la sua ex sposa, che nel frattempo era cresciuta e aveva preso marito: era rimasta talmente affezionata a quel giovane soldato italiano che le era stato imposto come sposo da bambina, da chiamare Indro il suo primogenito maschio (figlio, s’intende, del marito etiope).

Se Montanelli non può più difendersi dalle accuse rivoltegli, al contrario 150 scrittori americani e inglesi hanno firmato un appello contro quella che loro chiamano “cancel culture” (la cultura della cancellazione): una forma di censura ipocrita che tende a cancellare tutto ciò che del passato non ci piace perché valutato secondo le abitudini e le conquiste sociali odierne. Esempi lampanti di cancel culture sono l’aver bollato alcuni classici del cinema come razzisti (Via col vento e Colazione da Tiffany, per esempio), la squadra di baseball dei Redskin (letteralmente Pellerossa) costretta a cambiare nome dopo oltre 80 anni, o il boicottaggio dei film western interpretati da John Wayne (e in generale di tutti i film western precedenti agli anni ‘70), in quanto fomentatori d’odio contro i nativi americani.

Insomma, una causa giusta come la lotta al razzismo, impregnata di fondamentalismo e cancel culture rischia di trascinarci in una dittatura del politicamente corretto, dove ogni modo di dire e ogni parola, se soppesati col metro severo dei censori più oltranzisti, potrebbero far tacciare chiunque di razzismo.

CARLO DELASSO