Quando un suono acustico incontra il digitale Società

Uno dei temi da approfondire per capire perchè oggi la musica classica o comunque riprodotta in acustico non è gradita ai più giovani in genere è l’attenzione all’ascolto naturale e all’ascolto riprodotto.

Ovviamente dipende dal background dei ragazzi e dalla familiarità che coltivano nel tempo ed ancora dall'ascolto in famiglia e a scuola.

A supporto dell’approfondimento ci onora del suo contributo il dr. Leonida Gizzi, Laurea in Fisica presso l’Università di Pisa e Dottorato di Ricerca presso Limperial College di Londra, attualmente dirigente di Ricerca del CNR, responsabile della Sede di Pisa dell’Istituto Nazionale di Ottica dove dirige il Laboratorio di Irraggiamento Laser (Laboratorio di riferimento internazionale per i Laser Ultraintensi e i Plasmi Laser dal 2008).

Professore Gizzi, per poter far comprendere ai nostri lettori un argomento così complesso, ci può dare una spiegazione su che cosa è un segnale acustico e come si trasmette?

Sono ben felice di poter offrire un contributo al suo lavoro di ricerca per il quale mi complimento vivamente con lei.

La trasmissione o la riproduzione di un segnale acustico richiedono la trasformazione in un segnale digitale. Un segnale acustico viene convertito in un impulso di tensione elettrica che varia nel tempo. Il segnale si può descrivere come una funzione così come è rappresentato nei grafici cartesiani. Potremmo collocare sull’asse delle ascisse la tensione e sull’asse delle ordinate il tempo. Il segnale oscilla, in modo più o meno rapido, con andamenti più o meno veloci, rappresentati appunto come una funzione del tempo. Tale segnale da digitalizzare appunto viene trasformato in una sequenza di numeri, cioè sarà discretizzato. Quindi quello che era un segnale continuo diventa un segnale discreto.

Cambia qualcosa nel suono digitalizzato se lo rapportiamo ad un’immagine?

Si! È come succede nella fotografia, se io vado ad ingrandire l’immagine del segnale vedrò dei gradini come per le immagini, appunto i pixel. In fase di elaborazione questi gradini possono essere ridotti a piacere, a tal punto che l’orecchio comune non è in grado di distinguerli. Ci potrebbero essere degli effetti comulativi e sicuramente un orecchio più allenato potrebbe avvertire piccole distorsioni ma sostanzialmente un impianto di digitalizzazione professionale commerciali può essere accurato, a piacere fino a raggiungere in modo asintotico la qualità del segnale analogico.

Per quanto riguarda la musica di largo consumo cosa ci può dire?

Ovviamente c’è un limite che dipende da quanto si vuole rendere disponibile la musica di consumo, cioè quanto voglio che il file musicale sia piccolo da poterlo trasferire nei vari livelli di qualità.
Si opera una compressione che oltre a ridurre le dimensioni del file comporta una perdita della fedeltà del segnale. Infatti, se dovessi trasferire un segnale digitalizzato senza compressione il file sarebbe troppo grande. Quindi oltre a digitalizzare il segnale vengono adottati degli algoritmi che cercano di ridurre le dimensioni del file introducendo delle funzioni che a loro volta rappresentano i numeri. Questa operazione operazione rappresenta un elemento importante del processo di digitalizzazione.

Volendo entrare di più nell’argomento, possiamo spiegare ai nostri lettori questa trasformazione che, tranne gli addetti ai lavori, difficilmente si conosce?

Certo! Come abbiamo detto, si parte da una funzione e la si trasforma in numeri per poi ritrasformarla in funzioni che però non sono funzioni arbitrarie, ma sono un insieme di funzioni che tutti i computer sono in grado di interpretare e richiamare rapidamente. In questo modo, si trasferirà un file compresso su un altro dispositivo che lo riprodurrà con dei segni decodificabili come un alfabeto. La musica verrà riprodotta, quindi, con un’accuratezza, tanto maggiore quanto minore è la compressione e maggiore è la dimensione del file. Questo processo però, effettivamente, è in grado di garantire una qualità alta a piacere di chi lo produce. La qualità del sistema di riproduzione dev’essere in grado di riprodurre la gamma di frequenze contenute nel segnale, cioè di sostenere il tipo di segnale digitale. La grossa differenza di qualità si riflette quindi anche nel valore commerciale.

Allora per poter garantire una qualità maggiore cosa si dovrebbe richiedere a chi produce musica?

Il file originale prodotto in sala d’incisione probabilmente non è molto diverso dal file che si ottiene da una digitalizzazione ad altissima risoluzione. Il file sarebbe molto ingombrante e molto difficile da gestire e poco commerciale. Infatti gli addetti ai lavori delle case discografiche lavorano i file in formati diversi da quelli finali di uscita, proprio per poter gestire la qualità audio. Dal punto di vista commerciale la trasformazione del segnale digitale può essere resa in vari livelli qualitativi a seconda delle finalità economiche. Certo se si creasse il livello qualitativo più vicino alla realtà, neanche un musicista esperto noterebbe differenze ma questo prodotto sarebbe più costoso da gestire e da riprodurre.

Professore, quindi, la scelta della qualità della musica che noi ascoltiamo subisce dei ridimensionamenti?

Si! È una scelta commerciale che si attua nel ridurre le dimensioni dei file. La percezione del suono non è lineare ma è soggetta a vari aspetti, dalla percezione fisica agli effetti psichici e neurologici e alla rielaborazione che permette di percepire alcuni aspetti e non altri.

Chi produce musica ad alto livello tiene conto anche di questi aspetti. Quindi direi che la produzione di musica, così come quella delle immagini è basata su competenze multidisciplinari di cui la fisica in realtà è solamente l’anello intermedio, come anche l’elettronica e tutti gli aspetti tecnici. L’insieme di tutti gli aspetti consente di bilanciare il prodotto finale e raggiungere livelli di qualità alta a piacere.

Ma livelli di qualità a piacere significa che io discografico posso decidere la qualità inferiore che mi costa di meno?

Certo, si tratta di scelte che si operano in funzione di chi è il consumatore finale e, in una certa misura, di quanto si vuole ricavare dalle vendite.

Se ascoltiamo dal vivo un’orchestra classica è possibile che ascolteremo vibrazioni che poi nella registrazione digitale andranno perdute?

In linea di principio la riproduzione di alcuni strumenti con frequenze troppo alte o troppo basse possono essere tagliate dall’apparato tecnologico di registrazione e riproduzione. Ogni lavorazione del suono prevede una scelta di riduzione di frequenze. Le alte e basse frequenze agli estremi dello spettro di frequenze udibili prodotte da alcuni strumenti musicali, sono difficili da riprodurre perché occorre una tecnologia più spinta. Al contrario la voce è costituita da frequenze medie e medio basse ed è facilmente riproducibile da comuni diffusori (altoparlanti) ed è anche catturabile dai microfoni comuni. Per poter sentire le altissime frequenze e le basse frequenze si dovranno avere strumenti adatti ed anche costosi. Quindi sicuramente rispetto a una musica con orchestra, l’ascolto nelle cuffie o in altoparlante avrà carenze di questi estremi a meno chè non sia stata prodotta mantenendo alti livelli di riproduzione. L’udito umano è sensibile a frequenze al di sotto di 50 Hz   ma i comuni riproduttori di musica non sempre sono in grado di riprodurre queste frequenze. Stesso discorso per le alte frequenze. Alcuni strumenti emettono frequenze al di sopra di 10.000 Hz che sono presenti nella musica dal vivo, ma possono essere attenuate o eliminate dalla musica riprodotto elettronicamente.

Professore, sui vari dispositivi a nostra disposizione, ci sono dei sistemi di bilanciamento automatico, ci può dire le differenze rispetto all’ascolto dal vivo, ad esempio di un’orchestra classica?

I nostri dispositivi ci possono preservare dai suoni troppo alti ma sono sempre scelte personali.

Invece se ascoltiamo un’orchestra dal vivo ne assaporiamo tutte le peculiarità di ogni strumento e dell’insieme poiché gli strumenti musicali naturali non sono amplificati e la loro potenza sarà relativa alla loro cassa di riproduzione, quindi minore rispetto a una produzione elettronica.

Mediamente siamo abituati ad una percezione della musica ad alto volume cioè molto più alta di quello che il nostro orecchio dovrebbe udire. È chiaro che se si ascolta musica dal vivo prodotta da un’orchestra non amplificata, ma naturale, rispetto ad una riproduzione digitale, sentiremo tutti   equilibri che non saranno alterati. Oggi siamo esposti alla percezione alterata che appunto falsa la nostra percezione della musica.

Ci predisponiamo ad ascoltare la musica, ma per noi mediamente musica vuol dire segnali ad alta intensità. Con l’ascolto di una orchestra o formazione naturale dal vivo quindi la prima percezione è che il volume sia basso.

MAURA MINICOZZI