Subdoli stereotipi condizionano ancora le donne a progredire nella loro carriera Società
Psicologi e biologi hanno trovato di recente una definizione concorde per definire l’intelligenza come la capacità di preparare nuove soluzioni che vanno oltre il proprio repertorio. In altre parole, l’intelligenza consiste nella capacità di sapersi districare fuori dalla propria “zona di comodità”. Per anni si è creduto che una maggiore intelligenza fosse legata a un cervello più grande. Quello che però davvero fa la differenza è l’alto numero di neuroni della corteccia cerebrale, quell’area del cervello che ha il compito di assolvere le funzioni più complesse, associato alla rapidità di trasmissione dei segnali. L’intelligenza nell’essere umano è quindi la capacità di imparare, ragionare e risolvere problemi in parte complessi.
Il cervello di una donna è in media l’undici per cento più piccolo di quello di un uomo. Invano neuroscienziati hanno cercato di dirimere la questione se uomini e donne non abbiano le stesse capacità o siano più o meno portati verso la matematica o l’arte. Diversi studi hanno dimostrato che il nostro cervello ha la capacità di mutare, adattarsi, evolversi, autoinventarsi e se c’è un campo in cui non mancano dati è quello dedicato alla ricerca di differenze tra il cervello femminile e quello maschile. Se non esistono differenze sostanziali nei cervelli maschili e femminili, e se le studentesse, in ogni campo del sapere, sono in media alla pari, se non leggermente migliori, dei colleghi di sesso maschile, allora il motivo per cui le donne fanno tanta fatica a progredire nella loro carriera è da ricercarsi nei problemi culturali insiti nella società.
La ricerca ha dimostrato in modo inequivocabile che gli stereotipi di genere condizionano in modo importante i risultati delle donne in molti ambiti, dalla sicurezza di sé alla capacità di prendere decisioni fino all’esecuzione di un test di matematica.
Uno studio dei colleghi ricercatori dell’università padovana ha passato in rassegna l’effetto degli stereotipi nei risultati femminili, portando come esempio il gioco degli scacchi. La serie televisiva La regina degli scacchi andata in onda con grande successo su Netflix e il film sulla vera storia di Phiona Mutesi, giovane campionessa di scacchi cresciuta nei sobborghi di Kampala in Uganda, dal titolo Queen of Katwe, trasmesso da TV2000, ci raccontano – nonostante giocare a scacchi non richieda forza fisica – che gli scacchisti sono quasi tutti uomini: il 98 per cento contro il solo 2 per cento di donne. Da sempre gli scacchi sono quindi ritenuti uno sport – attenti a non ritenerlo un semplice gioco, è disciplina olimpica – in cui gli uomini sono notevolmente più bravi delle donne, esattamente come la matematica, la fisica o, più in generale, le materie definite con l’acronimo Stem (dall’inglese: scienze, tecnologia, ingegneria e matematica).
I ricercatori di Padova hanno condotto una serie di esperimenti su scacchiste e scacchisti di pari forza, chiedendo loro di giocare a distanza, attraverso il computer, dapprima senza sapere contro chi si stessero misurando (condizione di controllo), e in seguito in partite in cui il genere dell’avversario era dichiarato prima di cominciare (condizione sperimentale). Nella condizione di controllo, quando nessuno sapeva chi fosse il genere dell’avversario, uomini e donne si dimostravano equivalenti, ottenendo risultati molto simili in termini di vittorie e sconfitte. Quando però lo stereotipo era attivato, rivelando ai giocatori il genere dell’avversario, i risultati delle donne impegnate in singolar tenzone contro gli uomini peggioravano in modo rilevante. Se invece alle donne si faceva credere che l’avversario fosse un’altra donna, anche se non corrispondeva alla realtà, ecco che di nuovo tornavano a vincere come prima.
Esperimenti simili sono stati condotti su studenti prima di un test di matematica, con risultati analoghi. Tanti altri stereotipi agiscono in maniera subdola. Questi agiscono sin dai primi anni di vita dei bambini, condizionando le loro preferenze, le loro scelte di vita, la loro consapevolezza di sé e il loro rapporto con il mondo. Basti pensare a tutto ciò per capire quanto stiamo condizionando il loro futuro di adulti nella società.
GIANCARLO SCARAMUZZO
giancarloscaramuzzo@libero.it