Il segreto delle conte beneventane Enti
Le filastrocche che accompagnavano i giochi rivelano interessanti contenuti
Si potevano sentire recitate con tono cantilenante fino a qualche decennio fa nelle strade dove giocavano gruppi di bambini. Poi le automobili hanno invaso ogni spazio ed il cortile, il vicolo, la piazzetta si sono trasformati in parcheggio, togliendo ai bimbi ogni spazio per il gioco. Oltre a ciò, le vicende di cronaca nera legate all’infanzia hanno spinto genitori, nonni, educatori a fare dei bimbi di oggi dei reclusi guardati a vista, incapaci di avventura, di fantasia, prolungandone la dipendenza dagli adulti a dismisura. Per questo il VI Circolo Didattico di Benevento ha promosso già dallo scorso anno il progetto Giocare nella continuità tra Scuola dell’Infanzia e Scuola Primaria, a cura del gruppo di lavoro coordinato da Carla De Toma, formato da insegnanti di scuola materna ed elementare. Esso interpretando i bisogni di genitori e bambini, si propone di fare della scuola anche un luogo adatto al gioco, coinvolgendo anche i genitori, recuperando una dimensione di contatto tra coetanei e tra genitori e figli che moderni stili di vita tendono ad escludere, attraverso il gioco libero ed autogestito. L’esperienza è accuratamente documentata in un volume e raccoglie le valutazioni positive di tutti i partecipanti. In passato la scuola esauriva la sua esclusiva funzione didattica nelle ore di insegnamento, oggi si deve trasformare in centro sociale per essere spazio di aggregazione e socializzazione anche in orari pomeridiani, attraverso progetti varati dalle istituzioni, come Scuola aperta, che intende offrire momenti di integrazione a tutte le realtà territoriali, compresi gli stranieri presenti. In passato, a Benevento come dappertutto, il gioco nasceva spontaneamente tra i bambini del vicinato, impegnati in antiche gare d’abilità come Mazz’e pìveso una sorta di cricket; Strummolo, la trottola di legno; Chirchio, l’hoola hop. C’erano ancora Acquariello, il celebre nascondino, Uno mont’a uno, poi storpiato in Uno ‘mpont’a luna, cioè il saltacavallo, e tanti altri che certamente molti lettori ricorderanno. Tutti i giochi però avevano in comune una fase preliminare: la conta, in beneventano ‘u tuocco, dall’azione di toccare con la mano il petto dei partecipanti al gioco, posti in circolo, mentre si scandisce una filastrocca. In realtà la conta è un atto magico: le parole rituali della filastrocca, scandite con voce impersonale, come un mantra, la figura del cerchio formata dai partecipanti, sorta di vivente pentacolo, hanno la funzione di stabilire ritualmente le sorti, distribuendo i ruoli ai quali ogni giocatore si deve attenere: chi sarà l’inseguitore e chi l’inseguito. Il momento nel quale si recita la filastrocca della conta è un tempo sospeso, un’atemporalità che pone i giocatori fuori dalla realtà oggettiva per farli entrare nella realtà del gioco, con lo stesso meccanismo che hanno le formule di apertura e di chiusura delle narrazioni fiabesche. Chi viene designato dalla sorte nel ruolo di attore del gioco subisce, metaforicamente, l’imprigionamento, poiché è legato al ruolo imposto dal gioco. Il cerchio dei giocatori si disfa, la tensione si scioglie: il fato è stato decretato. Resta l’attore, terribile e solo, col suo compito da assolvere, come cacciatore e prede, o con un percorso difficile per poter tornare al punto di partenza, alla meta: il castello della Reginella, da raggiungere camminando col passo di leone o di formica o invisibilmente, come in Un due tre, stella. Se apparentemente le filastrocche delle conte possono sembrare dei nonsense, ad un’analisi approfondita rivelano una coesione di temi straordinaria; si tratta di un linguaggio referenziale, il cui oggetto metaforico è l’imprigionamento e la morte. Alcune di esse, già presenti nella raccolta di Francesco Corazzini, Componimenti minori della letteratura popolare comparata, Benevento, Tip. De Gennaro, 1877, erano usate dai bambini beneventani ancora negli anni ’30 e ’40. Una tra le più famose era Lampa lampa. Lampa lampa Lampa lampa Chi mor’e chi campa A parrocchi’ u Salvatore Chi ce resta va ‘mprigione (oppure : Chi s’accap’u pizzu suoio)
Traduzione Lampada lampada Chi muore e chi campa La parrocchia del Salvatore Chi ci resta va in prigione (oppure: Chi si sceglie il posto suo)
Nella conta Lampa lampa, la distribuzione delle sorti non avveniva secondo il sistema di toccare con la mano il petto dei compagni, secondo il ritmo metrico della conta. I giocatori tenevano la punta del dito indice sotto il palmo aperto della mano del capogioco. Alla fine della recitazione della filastrocca, il capogioco stringeva la mano, mentre gli altri, lestamente, cecavano di sfilare il dito, chi restava preso andava sotto. I primi due versi quindi acquistano un valore di metafora: la lampada è costituita dalla mano tesa del capogioco, mentre le dita poste sotto di essa rappresentano altrettante fiammelle. Quella che viene presa nelle mani del capogioco è come se fosse spenta, stabilendo chi muore e chi campa (chi mor’ e chi campa). Il capogioco assume il potere delle Parche, assegnando il destino ai partecipanti. Coloro che sfuggono sono salvi e chi resta muore, metaforicamente imprigionato nel ruolo di attore del gioco. La parrocchia in questione è la chiesa di San Salvatore a Porta Somma, posta alle spalle del Palazzo del Governo, ai piedi della Rocca dei rettori, nella quale si venera un frammento di legno della croce, assieme ad altre reliquie. Per la vicinanza al Castello, antico carcere cittadino, diventa una specie di anticamenra alla prigione. Così a chi resta preso dalla lampada tocca acchiappare i compagni. Nei prossimi numeri continueremo ad occuparci di questo affascinante argomento. Paola Caruso
Si potevano sentire recitate con tono cantilenante fino a qualche decennio fa nelle strade dove giocavano gruppi di bambini. Poi le automobili hanno invaso ogni spazio ed il cortile, il vicolo, la piazzetta si sono trasformati in parcheggio, togliendo ai bimbi ogni spazio per il gioco. Oltre a ciò, le vicende di cronaca nera legate all’infanzia hanno spinto genitori, nonni, educatori a fare dei bimbi di oggi dei reclusi guardati a vista, incapaci di avventura, di fantasia, prolungandone la dipendenza dagli adulti a dismisura. Per questo il VI Circolo Didattico di Benevento ha promosso già dallo scorso anno il progetto Giocare nella continuità tra Scuola dell’Infanzia e Scuola Primaria, a cura del gruppo di lavoro coordinato da Carla De Toma, formato da insegnanti di scuola materna ed elementare. Esso interpretando i bisogni di genitori e bambini, si propone di fare della scuola anche un luogo adatto al gioco, coinvolgendo anche i genitori, recuperando una dimensione di contatto tra coetanei e tra genitori e figli che moderni stili di vita tendono ad escludere, attraverso il gioco libero ed autogestito. L’esperienza è accuratamente documentata in un volume e raccoglie le valutazioni positive di tutti i partecipanti. In passato la scuola esauriva la sua esclusiva funzione didattica nelle ore di insegnamento, oggi si deve trasformare in centro sociale per essere spazio di aggregazione e socializzazione anche in orari pomeridiani, attraverso progetti varati dalle istituzioni, come Scuola aperta, che intende offrire momenti di integrazione a tutte le realtà territoriali, compresi gli stranieri presenti. In passato, a Benevento come dappertutto, il gioco nasceva spontaneamente tra i bambini del vicinato, impegnati in antiche gare d’abilità come Mazz’e pìveso una sorta di cricket; Strummolo, la trottola di legno; Chirchio, l’hoola hop. C’erano ancora Acquariello, il celebre nascondino, Uno mont’a uno, poi storpiato in Uno ‘mpont’a luna, cioè il saltacavallo, e tanti altri che certamente molti lettori ricorderanno. Tutti i giochi però avevano in comune una fase preliminare: la conta, in beneventano ‘u tuocco, dall’azione di toccare con la mano il petto dei partecipanti al gioco, posti in circolo, mentre si scandisce una filastrocca. In realtà la conta è un atto magico: le parole rituali della filastrocca, scandite con voce impersonale, come un mantra, la figura del cerchio formata dai partecipanti, sorta di vivente pentacolo, hanno la funzione di stabilire ritualmente le sorti, distribuendo i ruoli ai quali ogni giocatore si deve attenere: chi sarà l’inseguitore e chi l’inseguito. Il momento nel quale si recita la filastrocca della conta è un tempo sospeso, un’atemporalità che pone i giocatori fuori dalla realtà oggettiva per farli entrare nella realtà del gioco, con lo stesso meccanismo che hanno le formule di apertura e di chiusura delle narrazioni fiabesche. Chi viene designato dalla sorte nel ruolo di attore del gioco subisce, metaforicamente, l’imprigionamento, poiché è legato al ruolo imposto dal gioco. Il cerchio dei giocatori si disfa, la tensione si scioglie: il fato è stato decretato. Resta l’attore, terribile e solo, col suo compito da assolvere, come cacciatore e prede, o con un percorso difficile per poter tornare al punto di partenza, alla meta: il castello della Reginella, da raggiungere camminando col passo di leone o di formica o invisibilmente, come in Un due tre, stella. Se apparentemente le filastrocche delle conte possono sembrare dei nonsense, ad un’analisi approfondita rivelano una coesione di temi straordinaria; si tratta di un linguaggio referenziale, il cui oggetto metaforico è l’imprigionamento e la morte. Alcune di esse, già presenti nella raccolta di Francesco Corazzini, Componimenti minori della letteratura popolare comparata, Benevento, Tip. De Gennaro, 1877, erano usate dai bambini beneventani ancora negli anni ’30 e ’40. Una tra le più famose era Lampa lampa. Lampa lampa Lampa lampa Chi mor’e chi campa A parrocchi’ u Salvatore Chi ce resta va ‘mprigione (oppure : Chi s’accap’u pizzu suoio)
Traduzione Lampada lampada Chi muore e chi campa La parrocchia del Salvatore Chi ci resta va in prigione (oppure: Chi si sceglie il posto suo)
Nella conta Lampa lampa, la distribuzione delle sorti non avveniva secondo il sistema di toccare con la mano il petto dei compagni, secondo il ritmo metrico della conta. I giocatori tenevano la punta del dito indice sotto il palmo aperto della mano del capogioco. Alla fine della recitazione della filastrocca, il capogioco stringeva la mano, mentre gli altri, lestamente, cecavano di sfilare il dito, chi restava preso andava sotto. I primi due versi quindi acquistano un valore di metafora: la lampada è costituita dalla mano tesa del capogioco, mentre le dita poste sotto di essa rappresentano altrettante fiammelle. Quella che viene presa nelle mani del capogioco è come se fosse spenta, stabilendo chi muore e chi campa (chi mor’ e chi campa). Il capogioco assume il potere delle Parche, assegnando il destino ai partecipanti. Coloro che sfuggono sono salvi e chi resta muore, metaforicamente imprigionato nel ruolo di attore del gioco. La parrocchia in questione è la chiesa di San Salvatore a Porta Somma, posta alle spalle del Palazzo del Governo, ai piedi della Rocca dei rettori, nella quale si venera un frammento di legno della croce, assieme ad altre reliquie. Per la vicinanza al Castello, antico carcere cittadino, diventa una specie di anticamenra alla prigione. Così a chi resta preso dalla lampada tocca acchiappare i compagni. Nei prossimi numeri continueremo ad occuparci di questo affascinante argomento. Paola Caruso