Debiti fuori bilancio Società

Mentre sembra che la volonta' politica possa fare aggio su qualsiasi impedimento/intralcio di tipo normativo, succede che la paura delle conseguenze induca a forme di prudenza/cautela che sconfinano nell'immobilismo, parente stretto dell'inadempimento.

Non c'è bisogno di scomodare il “caso De Luca”. A parole uno più spregiudicato dell'altro, i due attori principali del romanzo/farsa si sono impantanati. Il presidente del Consiglio Matteo Renzi era dato dai giornali pronto ad assumersi la responsabilità di un atto di governo che potesse garantire a De Luca, eletto presidente della Regione Campania, di esercitare le “funzioni di partenza” del suo ufficio, prima di essere assoggettato alla sospensione della carica prevista dalla legge cosiddetta Severino. Minacciato di denunzia per “abuso d'ufficio”, ha affrettato i tempi ed ha sospeso De Luca prima ancora che il consiglio regionale eletto fosse insediato. Il rischio per lui (Renzi) era di essere assoggettato alla tagliola della legge Severino: anche il presidente del Consiglio, se condannato per abuso d'ufficio, deve essere sospeso.

L'uragano De Luca, ricevuta nell'uno-due la palla di ritorno, ha perso fantasia e baldanza. Non vuole rischiare altre denunce e vede pure in sogno la Severino (la legge) trasformarsi in mostruoso millepiedi.

Non conosco questa legge se non per sentito dire, ma mi basta per confessare che mai in Italia era stata varata allegramente (quasi all'unanimità) una cosa tanto strampalata. De Luca è candidabile ed eleggibile, non è interdetto ma è sospeso. Né lo statuto della Regione Campania immagina casi del genere.

Bisogna rifarsi ai “princìpi” del diritto. Ma pure quando i princìpi vengono espressamente recepiti in norme può succedere che perdano la loro elasticità (per adattarsi ai casi concreti) e diventino norme da applicare anche se provocano assurdità.

Nel periodo più burrascoso di “Mani pulite” il Parlamento (seconda metà degli anni '90) ebbe il coraggio (fatto quasi isolato) di varare una legge che, perfezionando la separazione tra attività di indirizzo e attività di gestione (principio introdotto con la legge 142 del 1990 sulle autonomie locali), escludeva la responsabilità contabile per i membri di organismi elettivi (consiglieri comunali, deputati e senatori eccetera) per decisioni prese nell'esercizio delle loro funzioni. E accorciava a 5 anni il termine di prescrizione dell'azione di responsabilità contabile.

Si dà il caso che il consiglio comunale di Benevento si sia “incartato” per una questione di riconoscimento di debiti fuori bilancio. Assenze “strategiche”, assenze “politiche” e assenze “partitiche” hanno impedito il funzionamento di una seduta regolarmente convocata.

I debiti fuori bilancio sono spese fatte (per lo più non previste, eccezionalmente più alte del previsto e così via), riconosciute ma non pagate perché non ancora “fatte rientrare” nella ordinaria trama del bilancio di previsione.

Una prima questione riguarda la competenza dell'organo che deve “sistemare” la contabilità e far “rientrare” con opportune manovre la spesa avendo spostato (e non “inventato”) una disponibilità in entrata. Stante la distinzione tra attività di indirizzo e attività di gestione, si potrebbe tranquillamente concludere che il consiglio comunale eccederebbe dalla sua competenza di organo di “indirizzo” e si farebbe coinvolgere, mettendo mano a singole manovre di spostamento/aggiustamento, in attività di gestione che non sono di sua competenza.

Invece che cosa sta accadendo? Consiglieri di opposizione e anche di maggioranza (per la verità e difficile la collocazione di alcuni sbandati/sbadati) chiedono insistentemente di vedere la carte.

Mentre proclamano di voler esercitare la loro funzione, in realtà rischiano di perdere la “presunzione di ignoranza tecnica” che la legge ha preparato come uno scafandro per il sommozzatore. Di fronte alla Corte dei Conti, che un domani chiederà di pagare il conto, non so come possa cavarsela il consigliere che si è fatto spiegare tutta la pratica e alla fine ha quasi messo la firma pure lui sulla maledetta carta.

Il consigliere comunale non diventa tecnico anche se è provvisto di una laurea o di una abilitazione professionale. Egli è parte di un collegio che esercita solo e semplicemente una rappresentanza di interessi. Solo se sta all'interno di questa blindatura, la Corte dei Conti non potrà sparare neanche un bengala.

Più che farsi “parte diligente-suicida” converrebbe ad ogni consigliere garantirsi attraverso una “eloquente” e articolata delibera, il cui contenuto (e non altro; e non la scrupolosa analisi dell'iter procedurale per produrre la spesa da “in-bilanciare”) è ciò che salva (o ciò che danna).

In una sostanziale ammissione di colpa si risolverebbero le commissioni di inchiesta di cui pure si parla. La gestione e, quindi, il controllo di legittimità e di regolarità sono esercizi di competenza di altri organi: a partire dalla giunta (non dai singoli assessori, dei quali è sufficiente, quando c'è, il presenzialismo) per finire ai dirigenti, ai revisori dei conti e al segretario generale.

Se poi alcune norme sono da rivedere, il Parlamento pensi alla Severino e il consiglio comunale pensi allo statuto e al regolamento di funzionamento del consiglio.

MARIO PEDICINI

mariopedicini@alice.it

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